di Rebecca Amanda Snyder
Introduzione
Il
cinema di Liliana Cavani “non offre acquisizioni sicure ma propone
piuttosto degli interrogativi. Esso è volto più a dividere che a
suscitare consensi, a problematizzare la riflessione, la
considerazione critica”1.
La
criticità che emerge dalle pieghe del suo cinema deriva prima di
tutto dallo sguardo libero, spontaneo e demistificatore della
regista, votato a “guardare alla realtà senza i manicheismi
imposti dal dualismo ideologico con le sue formule aprioristiche di
interpretazione della realtà”2.
Nelle
pagine seguenti si è tentato di evidenziare come la libertà di tale
sguardo derivi dalla capacità di sfruttare le due opposte
possibilità presenti nella pratica cinematografica, quella
dell’attestazione di verità dovuta alla natura indicale del mezzo,
e quella dell’invenzione artificiosa favorita in
primis dal montaggio
delle immagini.
Il
cinema della Cavani è volto all’emersione della natura ambigua e
polisemica dell’immagine filmica-fotografica in quanto traccia del
reale: lo spettatore corre spesso il rischio di cadere nella trappola
cortocircuitante, predisposta dalla regista con rigore, che lo
disorienta tanto da renderlo incapace di distinguere la realtà dalla
finzione. Funzionale alla promozione di tale effetto è l’uso
‘spregiudicato’ di alcuni dettagli attinti dal repertorio delle
immagini horror in un film come La
pelle, in cui sono
stati individuati tre momenti privilegiati di fruizione ‘estrema’
dell’immagine.
La
regista preme il ‘pedale’ iperrealista anche in Francesco,
il secondo film sul santo di Assisi interpretato da Mickey Rourke.
Una lettura dell’opera volta ad encomiare la performance
della star americana, per quanto possa risultare convincente, può
dimostrarsi fuorviante per il riconoscimento d’alcuni aspetti del
film la cui soggiacente intenzionalità può ritenersi davvero
eversiva. Questo convincimento nasce dalla caparbietà con cui la
regista insistette sulla necessità che Francesco d’Assisi fosse
interpretato dall’attore americano: “Al produttore non ho
lasciato alternative: niente Rourke, niente Francesco”3.
La
nostra proposta interpretativa s’incardina sull’operazione di
liberazione da un’immagine-feticcio che la Cavani avrebbe
effettuato sull’immagine-corpo di Mickey Rourke. In altre parole la
regista avrebbe insistito sulla scelta di Rourke per abbattere
l’icona del sex-symbol al fine di liberare il carisma e la
spontaneità di un attore di cui ella intravedeva le grandi
potenzialità: “Lui ha molta più fede nel mestiere dell’attore
di quanto lasci capire”4.
Anche
in quest’ultimo caso ciò che preme sottolineare è la forte
ambivalenza dell’immagine, ‘contesa’ dalle logiche dello
star-system da una parte, e dalle esigenze diegetiche interne al film
dall’altra.
La
mise en abîme
è, dunque, una delle cifre del cinema di Liliana Cavani in quanto
nei suoi film niente è quello che dovrebbe essere, niente è quello
che a noi sembra. A proposito del film Milarepa,
l’autrice invita a considerarlo come “un viaggio nel labirinto”,
cioè un mito che “puoi ripetere mille volte perché ogni volta
torni indietro con qualcosa di differente dentro di te”5.
Nell’analisi
dedicata a Milarepa
si è tentata una lettura originale del film, a partire da un’altra
componente che caratterizza alcune opere della regista, ovvero la
naïveté delle
scelte registiche, che rimandano all’archeologia del cinema, al
candore e alla semplicità delle origini; elementi che descrivono lo
stesso percorso di formazione dell’asceta tibetano.
Dal
cinema delle origini la regista mutua anche l’aspetto spettacolare,
la fondamentale ed originaria componente della meraviglia e del
divertimento: assistiamo nel film a veri e propri prodigi che fanno
subito pensare alle magie cinematografiche praticate dai registi
‘primitivi’ che entusiasmavano il pubblico grazie agli effetti
speciali, alle dissolvenze e a tutto il repertorio dei trucchi
d’illusione attraverso cui si cercava di riprodurre la dimensione
onirica o creare funambolici viaggi immaginari.
L’entusiasmo
della Cavani per certe soluzioni deriva da un sentimento religioso di
totale apertura e sperimentazione che Pier Paolo Pasolini colse con
la sensibilità e l’intelligenza che gli erano proprie: “la
Geometria che sintetizza tutti i punti di vista possibili della vita
(vissuta e vista vivere) di Milarepa ha, come dire, tecnicamente, i
caratteri della visione religiosa del reale, che è appunto sempre
polivalente e onnicomprensiva”6.
In
conclusione, attraverso l’analisi dei tre film succitati, ovvero
Milarepa,
La pelle
e Francesco,
si contempleranno alcuni aspetti del cinema cavaniano che, dal
candore naïf
alla crudezza più esasperata, descrivono lo statuto dell’immagine
in quanto elemento fortemente ambivalente, cangiante, anzi
appositamente predisposto ad evitare quel processo di disambiguazione
tipico di ogni atto di simbolizzazione. Così Milarepa,
in ragione della propria struttura mitica, diventa passibile di
sempre nuove letture; La
pelle diviene
l’exemplum
più raffinato dell’ambiguità tra realtà e finzione che si
traduce nello stridore, nell’oscenità e nella non-dicibilità
dell’immagine; Francesco
è il luogo critico di un’immagine contesa tra il proprio ‘statuto’
di feticcio pubblico e le esigenze ‘interne’ della diegesi.
Milarepa
(1973)
Milarepa,
film girato dalla regista carpigiana nel 1973, è l’opera che,
forse più d’ogni altra, contiene in sé quella componente di
naïveté che
caratterizza parte della sua produzione e del suo approccio al
cinema, a volte ammantato di un candore e di una semplicità
disarmanti, che spesso però trovano ragione nello spirito libero,
spontaneo e audace della Cavani, come si evince dalle sue
dichiarazioni: “Secondo me è importante fare quanto si desidera,
non arrendendosi all’idea che sia impossibile”7,
e ancora: “Mi sono abituata a pensare che le cose impossibili sono
meno impossibili di quanto si pensi”8.
Insomma
lo spirito pionieristico della regista è ciò che la sostiene nelle
sfide più difficili ed è lo stesso, d’altra parte, che in alcuni
frangenti la conduce a soluzioni tanto (apparentemente) ingenue da
destare una grandissima commozione.
L’amore
per il cinema e la fede che in esso ripone sono il motore di quello
slancio entusiastico che trapela in modo eccezionale in Milarepa:
“Il cinema è la maniera in cui i miei pensieri prendono forma. Se
i fratelli Lumière non ci avessero dato il cinema, io sarei stata
condannata a non esprimermi e sarei infelicissima oppure in un
manicomio”9.
Quest’ultima
citazione ci permette di inoltrarci più a fondo nella trattazione
osservando che proprio in Milarepa
si possono individuare diverse soluzioni registiche che
all’archeologia del cinema sembrano ispirarsi e modellarsi: i
Lumière, Méliès, il cinema comico americano e le stesse
avanguardie russe affiorano come muti ispiratori nella costruzione di
alcune scene e sequenze.
Ora,
questo rifarsi all’ingenuità e freschezza del cinema delle
origini, trova la sua controparte nella stessa filosofia alla base
del percorso di saggezza intrapreso dal protagonista. Il ‘candore’
del cinema delle origini rispecchia l’apparente semplicità della
filosofia orientale: è necessario regredire in sé stessi per
ritrovarsi.
Milarepa
è il racconto di un viaggio immaginario nelle terre del Tibet di uno
studente universitario, Leo, che si identifica nell’asceta tibetano
dell’undicesimo secolo Milarepa. Essendo un racconto del tutto
immaginato, i luoghi in cui si svolgono i fatti non sono quelli
autentici ma ricostruiti dalla coscienza del protagonista che nel
film si identificano con le montagne brulle dell’Abruzzo. Anche gli
abiti non sono filologicamente attendibili ma frutto
dell’immaginazione così come la lingua parlata dai discepoli, un
italiano contaminato da un accento straniero.
Ciò
che accomuna tutte queste istanze è un’idea di esotismo, non
fisicamente esperito ma mentalmente immaginato. Dice bene Ciriaco
Tiso quando sottolinea che “Milarepa è l’affermazione dei valori
dell’immaginazione, la dichiarazione della felicità del narrare e
dell’inventare evitando la fantasia sfrenata; è l’immaginazione
che supera il realismo, ma che da esso nasce”10.
Come
non trasporre questo pensiero e il viaggio di Milarepa al cinema
delle origini e, perché no, a Le
Voyage dans la Lune di
Méliès in cui l’immaginazione di un luogo esotico costruito
attraverso delle scenografie dipinte fonda il proprio realismo a
partire dalla natura indicale del mezzo cinematografico?
In
secondo luogo Leo, avendo letto e tradotto il libro Rechung-Milarepa,
si immedesima
nell’asceta Milarepa e ugualmente proietta “la propria madre come
madre di Milarepa, la sorellina come sorellina del mistico, il suo
professore e la moglie come il saggio Marpa e signora. Trasporta
insomma tutto il proprio mondo nella vicenda del mistico tibetano”11.
Questo
viaggio di continue andate e ritorni tra realtà e immaginazione
presenta una geometria cristallina e una corrispondenza perfetta tra
i vari personaggi ed elementi del film che Pier Paolo Pasolini elogiò
in un intervento assai noto12.
E
d’altra parte questa stessa corrispondenza degli elementi è
costruita su di un rigoroso e omogeneo montaggio cinematografico che,
alternando le serie spazio-temporali in maniera manifesta ma senza
cedere alla macchinosità, si fa garante del funambolico viaggio
rendendo apertamente omaggio alle sperimentazioni degli stessi
formalisti russi che, attraverso il montaggio, si dilettavano ad
unire parti del mondo molto distanti tra loro dando vivo sfogo
all’immaginazione.
Per
Liliana Cavani il cinema è magia, e celo dimostra apertamente
allorché Milarepa, su richiesta della madre, apprende la magia nera
per vendicarsi dei famigliari che hanno spogliato la sua famiglia di
ogni bene dopo la morte del padre. Milarepa si avvia, così, verso la
strada della liberazione che gli consentirà di “vedere senza
occhi, toccare senza mani, giungere senza camminare”; queste parole
riassumono la natura e le potenzialità del mezzo cinematografico
che, attraverso il montaggio e in virtù della propria ontologia,
permette di solcare distanze spazio-temporali altrimenti incolmabili
e provocare fenomeni incommensurabili. È grazie al cinema che
Milarepa, con un semplice gesto della mano, è in grado di far
crollare una casa intera o seminare morte e distruzione in un
villaggio di contadini, il cui “prodigio” egli potrà verificare
accompagnato dall’andamento traballante della cinepresa che
‘simula’ un taglio delle riprese in stile reportage.
Una
delle scene più commoventi è la resurrezione dei pesci, animali
sacri, ad opera di un saggio eremita, il Lama Nyingma,
che Milarepa incontra nel suo viaggio.
Il
Lama è intento ad abbrustolire alcuni pesci da lui pescati per poi
consumarli e finalmente donare loro nuova vita: “Come potrei
uccidere delle vite se non sapessi resuscitarle?”.
Attraverso
un gioco di dissolvenze le lische dei pesci riacquistano carne e vita
attestando il potere di resurrezione del cinema.
Tale messaggio è reso esplicito dall’effetto ‘artigianale’ del miracolo e pur tuttavia realistico nel suo cosciente atto di fede.
Tale messaggio è reso esplicito dall’effetto ‘artigianale’ del miracolo e pur tuttavia realistico nel suo cosciente atto di fede.
Il
concetto di resurrezione è particolarmente congeniale ad un discorso
sulla natura ontologica dell’immagine filmica tanto da impegnare lo
stesso André Bazin, che alla questione dedicò alcuni capitoli del
suo Che cos’è il
cinema? Il critico
francese ravvisava nella morte l’istante qualitativo per eccellenza
per la sua unicità e metteva in rilievo come la riproducibilità
meccanica di tale evento rasentasse l’immoralità13.
La
Cavani sembra avvalorare, attraverso questo piccolo ‘saggio’
cinematografico, la tesi proposta da Bazin sull’ontologia
dell’immagine filmica e guardare con entusiasmo al prodigio, pur
esimendosi sempre dal filmare la morte (vera) in diretta.
Ed
infine veniamo all’incontro di Milarepa con Marpa che segna il
degno epilogo di una vera e propria apologia del cinema.
Tale
incontro si pone subito all’insegna di un rapporto di sudditanza
rispetto al maestro che non ha nessuna intenzione di iniziare
immediatamente il discepolo alla dottrina. Prima egli dovrà,
attraverso mille fatiche e prostrazioni, depurarsi dal karma
negativo.
Così
Milarepa verrà sottoposto ad una serie di torture fisiche e
psicologiche, tra le quali quelle che contemplano la costruzione di
una torre, che egli ricostruirà per ben tre volte a causa
dell’apparente volubilità del maestro.
Ebbene,
al di là della serietà intrinseca dell’evento, esso si tinge di
note tragicomiche, di un’ironia che “sembra una simpatica trovata
per evidenziare tutta l’abnegazione su cui deve far leva
Milarepa-Leo, per completare il suo percorso di formazione”14.
In
realtà questa “simpatica trovata”, nella sua struttura
sintattica, ricorda molto da vicino certe soluzioni del grande cinema
comico quale quello di un Charlie Chaplin o di un Buster Keaton, in
cui la comicità deriva dalla ripetizione differente di un unico
sintagma figurativo o narrativo. Le gag
si distinguono spesso
per l’ossessiva ripetitività di una serie di situazioni e per la
loro propensione a tendere verso una conclusione catastrofica. Così
come avviene per Milarepa che rischia di morire di stenti per
realizzare una torre apparentemente inutile.
Oppure
si pensi alle potenzialità comiche dell’io arbitrario, lirico e
imprevedibile di Chaplin e lo si accosti all’arbitrarietà delle
direttive e delle osservazioni di Marpa che si rivolge allo spossato
Mila vanificando il suo lavoro: “Demolisci la torre, il posto non è
buono. Costruisci là al nord. Se non ti piacciono le mie idee
vattene”, oppure “Tutto sommato adesso la preferisco quadrata”,
e ancora: “Ragazzo, con quel rumore disturbi la nostra lettura. Fai
piano!” ed infine: “Chi ti ha aiutato a mettere quella pietra lì?
Le pietre di questa casa devi metterle tu con le tue mani. Toglila.”
Inoltre l’interpretazione di Paolo Bonacelli nel ruolo di Marpa
invita ad una lettura anche divertita dell’episodio.
Insomma,
il percorso di formazione di Milarepa offre l’occasione per una
tragicomicità di grande respiro.
La
pelle (1981)
La
pelle, film girato da
Liliana Cavani nel 1981 e tratto dal romanzo omonimo di Curzio
Malaparte, racconta dello sbarco a Napoli degli alleati nel 1943.
Paradossalmente
si tratta di un film di guerra in tempo di pace: il nemico se n’è
andato da tempo e ciò che rimane è una città sconquassata dalla
barbarie della guerra in cui la mercificazione dei corpi di donne e
bambini è all’ordine del giorno; i prigionieri di guerra sono
venduti a peso d’oro; il furto è l’unica pratica possibile per
garantirsi la sopravvivenza; persino la procreazione è contro-natura
come ci testimonia il parto omosessuale. È un mondo in cui l’orrore
diventa ordinario e la normalità un’eccezione secondo la logica
infernale del ribaltamento dei valori.
I
temi e l’atmosfera veicolati dal romanzo ispirano alla regista
carpigiana un linguaggio cinematografico alternativamente
grandguignolesco, iperrealista e che non lesina sui dettagli di corpi
feriti o squartati attingendo di continuo al bacino di repertori e
stilemi del genere horror e in particolare del suo sottogenere
splatter, basato
sull'estrema realisticità degli effetti speciali,
che descrivono lo schizzare del sangue o la lacerazione dei corpi umani,
con conseguente fuoriuscita di interiora.
Lo
splatter degli anni ottanta è pure fortemente contaminato con il
cosiddetto body horror,
ossia un cinema che narra delle deformità fisiche del corpo umano.
Una
certa fascinazione della regista per quest’ultima componente è
confermata dalla presenza nel film di persone con deformità o
stranezze fisiche; basti ricordare il fotografo gobbo e dal viso
malformato che immortala con uno scatto la danza dei soldati
scozzesi; la sirena cotta approntata per la cena “rinascimentale”
in onore della moglie del senatore; le donne nane che offrono il loro
sesso come un oggetto bizzarro; l’omosessuale ‘incinto’; la
stessa vergine Maria Concetta rientra in questo carosello di ‘mostri’
per il suo imene non ancora lacerato.
Detto
ciò, è necessario fare le debite distinzioni e capire come la
regista si avvalga di certe desinenze del cinema horror declinandole
però in una maniera del tutto personale e foriera di un potere
corrosivo straordinario.
Il
cinema splatter nasce per individuare e soddisfare i gusti di una
fetta di pubblico e quindi per ragioni strettamente legate al
mercato. Il suo obiettivo estetico è di disgustare il pubblico.
Nelle sue
realizzazioni più alte è in grado di farlo ragionare e riflettere
sulla violenza presente nella società reale; in particolare il
cinema horror degli anni Settanta costituiva l’abreazione di un
inconscio collettivo stretto nelle morse psicologiche della guerra
del Vietnam.
Tuttavia,
trattandosi di un genere cinematografico, è caratterizzato da
omogeneità e dunque anche da una certa percentuale di prevedibilità
che inevitabilmente ne smorza l’efficacia.
L’operazione
della Cavani consiste nel prelevare chirurgicamente alcuni frammenti
dal repertorio delle immagini horror di ‘serie B’ e inserirli con
encomiabile raffinatezza su una macchina cinematografica di ‘serie
A’, erede della tradizione del cinema classico hollywoodiano e che
ammicca anche al neorealismo italiano. La Cavani unisce il sacro al
profano, “mescolando l’horror al sentimentale, il sordido del
vicolo alla sontuosità dei palazzi patrizi”15,
con una verve genuina e spontanea che raccoglie le diverse ed
eterogenee istanze in un eclettismo, se vogliamo anche un kitsch,
davvero autentici, mai scadenti nella maniera: “Nel mio lavoro non
c’è nulla di premeditatamente teso all’oltranza: probabilmente
la vera libertà di cui ho sempre goduto a caro prezzo fa sì che
quando il testo pretende certi modi di espressione io li adotti senza
timori né autolimitazioni, e sempre con rigore professionale”16.
L’
‘ingerenza’ episodica dei dettagli splatter, nell’economia di
un montaggio ben calibrato, crea dunque una frattura nel “contesto
armonico” della narrazione filmica producendo un effetto
“perturbante17”
che si potrebbe figurativamente immaginare come uno squarcio nella
superficie di celluloide, un momento cioè di stupore, di incanto in
cui ci si smarrisce nell’immagine iperreale, nella iper-fiction.
Liliana Cavani potrebbe essere a buon diritto considerata la novella
Lucio Fontana dell’arte cinematografica.
La
crudezza dell’immagine deriva dall’epoché,
dalla sospensione del giudizio rispetto a ciò che i nostri occhi ci
consegnano. Quando la Cavani afferma: “La crudeltà, l’egoismo in
senso analitico e quindi il gioco, sono i mezzi per arrivare al
realismo”18
intende dire anche questo: che la violenza, la crudeltà perpetrata
ai danni dello spettatore nel senso del comune modo di vedere e
percepire il mondo, sono gli unici modi per destarlo e mostrargli la
realtà del mondo.
A
questo proposito sarà utile e illuminante fermarsi su alcuni di
questi momenti privilegiati di ‘destrutturazione’ della visione
nel film La pelle.
Una
delle scene più raccapriccianti del film è quella in cui un soldato
americano viene sventrato dall’esplosione di una mina. L’intera
sequenza è costruita e orchestrata in maniera magistrale al fine di
far emergere in tutta la sua carica eversiva il momento clou.
Il
capitano Malaparte, assieme al capitano Jimmy, è impegnato ad
acquistare alcuni rari generi alimentari in occasione del ricevimento
di Deborah Wyatt, la moglie del senatore del Massachusetts. Il pranzo
contemplerà un “menù rinascimentale in piena guerra mondiale”
come afferma con ilarità Jimmy; parole che palesano una situazione
grottesca: l’apice del superfluo e della stravaganza convive nello
stesso luogo, Napoli, in cui un tozzo di pane è comprato
prostituendo donne e bambini.
La
situazione è talmente paradossale e portata alle estreme conseguenze
che, letteralmente e visivamente, esplode: un soldato americano, con
le braghe calate, sta ‘defezionando’ per un bisogno intestinale
impellente, esce fuori del campo visivo dello spettatore che ode una
detonazione: il soldato ha pestato una mina ed è saltato in aria.
Subito
dopo scopriamo le sue budella riversarsi sull’ uniforme: un vero
frammento splatter che abbacina la vista e produce un effetto simile
alla pornografia per l’oscenità del taglio ‘documentaristico’
dell’immagine.
E
l’oscenità è un tabù come lo è la morte, è qualcosa che non si
riesce a comporre cognitivamente come dichiara la stessa regista a
proposito dell’esperienza che, ancora bambina, visse di fronte ai
cadaveri di alcuni partigiani: “L’immagine di quei morti fucilati
mi ha angosciato per lungo tempo. Ma io non me ne rendevo conto… Li
ho sognati per molto tempo. E siccome non avevo la religione che mi
aiutasse a capire, per me rimaneva un mistero che purtroppo non
riuscivo a mettere d’accordo con nessuna ideologia”19.
In
virtù della propria oscenità questo frammento costituisce uno dei
pochi momenti ‘autentici’ del film. Il che viene ribadito molto
sottilmente poco dopo. Per distrarre il soldato morente il capitano
Malaparte e un sergente americano inscenano una commediola farcita di
stereotipi: “Hei cumpà!”, incalza l’americano, “Chewing
gum”, risponde Malaparte e così via: “A’ sta fasù!”,
“Yankee dollar”, “Hei, cazz’in cul”. Quindi Malaparte è
chiamato ad imitare Mussolini sempre nell’intento di distrarre il
soldato morente. Mani sui fianchi, impettito e imbronciato il
capitano recita la sua parte: “Italiani! Italiane! Dopo venti
secoli…!”. Ma fallisce, non è in grado di proseguire:
l’imitazione della realtà non può supplire alla realtà stessa;
l’ideologia in quanto contraffazione della realtà non regge di
fronte all’oscenità della morte. S’inscrive in questa splendida
pagina cinematografica anche una corrosiva critica alla retorica del
fascismo.
L’intera
sequenza, dunque, si carica di una forza distruttiva dirompente che
si abbatte sull’ultima parte della stessa sequenza, portatrice di
un’ennesima ideologia.
Al
primo incidente sul campo minato ne segue un vero e proprio bis.
Pasqualino,
il fratello di Maria Concetta, la vergine che ha confortato il
soldato morente, sottrae agli americani la valigetta di soccorso e si
dirige verso il campo minato. Jimmy lo rincorre e, in uno slancio
spettacolare, lo salva da morte certa.
L’evento
e il suo lieto fine con Jimmy e Maria Concetta che si sorridono
palesa da subito la propria natura di clone, di fac-simile, di realtà
edulcorata e riparatrice rispetto al primo incidente. Ed è così che
lo stereotipo dell’alleato americano soccorritore del popolo
italiano viene completamente demistificato secondo uno dei
proponimenti dell’autrice: “La
pelle è nato dal
libro di Curzio Malaparte, dal desiderio di raccontare una situazione
mistificata dai luoghi comuni, che era stata nella realtà più
abietta ma più vitale”20.
Un’altra
sequenza di mirabile maestria è quella seguente che s’incardina
sul “pranzo rinascimentale” imbandito in onore di Mrs Wyatt,
l’aviatrice americana giunta a Napoli alla ricerca di un po’ di
fama.
Efferata
è l’ironia lanciata verso l’intelligentia
americana la cui ignoranza sul paese ospitante è abissale. Il pranzo
cosiddetto “rinascimentale” in realtà si tiene in un palazzo
settecentesco ed è servito da maggiordomi in abiti pure
settecenteschi; la pannocchia di mais consumata dagli ospiti non era
certo un alimento prelibato per i nobili del Rinascimento quanto la
base dell’alimentazione dei contadini padani dell’epoca; la
convinzione dell’ospite d’onore che “Esposito” sia un cognome
nobile non viene scalfita nemmeno dalla cortese spiegazione di
Malaparte; l’apice del parossismo si raggiunge con la portata
d’eccellenza: pesce bollito con maionese.
Ed
ecco che qui fa la sua comparsa l’ennesimo inserto splatter che
poco più sopra abbiamo precisato afferire al sottogenere body
horror.
Il
piatto prelibato consiste in uno strano mostro grigiastro dotato di
coda e pinne con inquietanti sembianze umane. Ancora una volta lo
sguardo dello spettatore viene violentato da un oggetto sulla cui
esistenza non si può che dubitare; eppure la sua realtà, il suo
esserci qui ed ora viene sottolineato e ‘comprovato’ dalle scelte
registiche: il mostro viene offerto alla vista dello spettatore
secondo plurimi punti di vista: di fronte, dal didietro e nello
scorcio del mento e del seno quasi a volerne dare una visione a tutto
tondo, e dunque veritiera, attraverso un procedimento analitico.
Tuttavia
l’aspetto forse più interessante è l’insieme dei discorsi,
delle affermazioni che descrivono la portata la cui ambiguità e
contraddittorietà contribuiscono a promuovere la suspense
e a disorientare lo spettatore. Cork lo presenta come “pesce
bollito con maionese”, “ghiottoneria”, “delicato bocconcino”;
quindi tale assunzione di significato inizia una parabola discendente
che conduce addirittura a negare l’esistenza dell’oggetto,
dapprima presentandolo come un essere raro, “una sirena” appunto,
poi immaginario, “la sirena che tentò Ulisse”, fino a negarne
l’esistenza: “le sirene non sono mai esistite”. Allorché il
fantomatico pesce viene scoperchiato lo spettatore è costretto ad
attestare la realtà dell’immagine e di conseguenza la plausibilità
di tutti i discorsi che precedentemente sono fioriti su di essa. Così
l’ipotesi che si tratti di una “bambina cotta” non ha più
credito di quella contraria per cui si possa trattare effettivamente
di una “sirena decaduta”. Solo un atto di arbitrarietà può dare
allo spettatore il diritto di scegliere nel caleidoscopio semantico
dell’immagine. Insomma, siamo di fronte a un saggio
metacinematografico in cui la regista afferma la polisemia
dell’immagine filmica-fotografica e la sua intima essenza religiosa
e politica: “Il cinema è politico solo quando lascia lo spettatore
inquieto, dérangé
o entusiasta di fronte a qualcosa di irrisolto”21.
Veniamo
ora alla sequenza finale del film per concludere coerentemente la
lettura fin qui proposta.
Sulla
strada per Roma gli americani, da esemplari ‘colonizzatori’, si
appropriano dell’antica lingua latina per piegarla ai propri fini
autocelebrativi come si evince dallo scambio verbale dei due uomini
della Quinta Armata americana: “Sic iter ad astra!”, esordisce il
primo, “Tempus fugit” ribatte il secondo. Il famoso passo
virgiliano che significa “Questa è la strada per l’immortalità”
viene tradotto con “Questa è la strada per le stelle”, dove con
“stelle” si intendono le ‘stellette’ della bandiera americana
o, in alternativa, le superstar del pantheon hollywoodiano al quale
il prode generale Cork avrà presto accesso.
La
Cavani non si lascia sfuggire l’occasione per presentare gli
alleati tutti intenti ad allestire, alle porte della città eterna,
un megagalattico set cinematografico degno di un kolossal americano
per accogliere il nuovo Cesare. Così i soldati, divisi in comparse e
fotografi di scena, si danno un bel daffare ad immortalare una delle
due facce d’America, preparando sullo sfondo un grande cartello con
la scritta “ROMA” tutto trapuntato di lampadine che lo fanno
assomigliare a un’insegna luminosa di Las Vegas.
Ma
tale impalcatura posticcia è destinata a crollare miseramente nella
cruente, terrificante e ripugnante immagine dell’uomo triturato dai
cingoli del carrarmato, che ancora una volta non può fare a meno
dell’iperrealismo del dettaglio splatter.
La
crudeltà e l’assurdità della guerra ne La
pelle si inseriscono
nell’ottica di una ‘volontà’ di perversione del male che ne fa
un film epico.
Francesco
(1989)
Il
cinema scomodo, urtante, stridente della Cavani raggiunge punte
iconoclaste in Francesco,
diretto nel 1989 con protagonista Mickey Rourke nel ruolo del santo
di Assisi.
Film
che non è per nulla un remake del primo Francesco
d’Assisi ma una
creatura nuova il cui motivo ispiratore sembrerebbe essere
l’abbattimento di un’icona, di un feticcio quale è il sex-symbol
Mickey Rourke, ‘reduce’ da film quali, solo per citarne alcuni,
Nove settimane e 1/2
(1986) e Johnny il
Bello (1989).
La
messe di critiche e polemiche che si raccolse in occasione della
presentazione del film a Cannes si appuntava principalmente sulla
performance
dell’attore protagonista. Ai pareri entusiasti che ne
sottolineavano la forza di penetrazione e la straordinaria
interpretazione sostenuta da un solido carisma, se ne alternavano
altri, più azzardati, che proponevano un parallelismo tra le vite di
Rourke e Francesco, entrambi dediti, almeno per una parte della loro
vita, a certi rilassamenti morali ed entrambi seduttori seppur di
genere diverso… Non mancarono poi le stroncature e le invettive tra
le quali una delle più scottanti fu quella lanciata da Carlo
Laurenzi per “Il Giornale Nuovo”, che descrisse Mickey Rourke
come “una stella spenta”, i cui occhi “sono lucidi come di
pianto o di febbre o magari di sazietà alcolica”22,
con un chiaro riferimento alla sua tormentata vita professionale e
privata.
Neppure
Tullio Kezich per il “Corriere della Sera” si contenne,
osservando che “lo spessore carismatico del personaggio non si
ritrova nel playboy pentito Mickey Rourke che (…) raffigura un
Francesco più furbetto che ispirato, più balordo che mistico (…)
Rourke è quello di 9 settimane e 1/2”23.
Positivo
o meno il giudizio, il valore del film si misura in base alla
capacità di Rourke di convincere.
Insomma
l’immagine dell’attore è divisa tra l’ambito professionale -
divistico e quello privato in una tensione mai componibile. In questo
senso si profila una nuova proposta di lettura dell’opera della
Cavani, un’impresa rischiosa, dall’effetto détournante,
shockante
per lo spettatore, costretto continuamente nell’immane sforzo di
sovrapporre o comporre l’immagine minuta e gracile del sant’uomo
con quella sensualissima e poderosa dell’attore americano, pena la
non credibilità; operazione che è già condensata nei titoli di
testa ove il nome dell’attore è seguito dal primo nome del santo,
a sottolineare l’intenzione, dal principio della pellicola, di
fondere o, meglio, far configgere due individualità.
Mickey
Rourke, avvolto negli stracci o nel saio francescano, è prima di
tutto un oggetto ready-made,
nell’accezione letterale e didascalica del termine, ovvero un
comune oggetto di uso quotidiano prelevato dall'artista e posto così
com'è in una situazione diversa da quella di utilizzo, che gli
sarebbe propria.
Questo
concetto è valido su più fronti. Mickey Rourke nel film della
Cavani è ‘decontestualizzato’ innanzitutto rispetto ai ruoli
comunemente ricoperti; la sua figura inoltre si distingue sommamente
da quella degli altri discepoli in quanto è fisicamente più
prestante, più alto di statura e porta una capigliatura fine anni
Ottanta: tutti elementi che davvero contribuiscono a renderlo un
alieno, catapultato in un’altra dimensione spazio-temporale, il che
peraltro è la condizione del santo d’Assisi.
I
comprimari non godono della fama di Rourke e né della stessa
presenza fisica, a parte la co-protagonista, Helena Bonham Carter nel
ruolo di santa Chiara. Tuttavia la sua notorietà come attrice non
entra in conflitto con il ruolo ricoperto. La Carter si è affermata
nel panorama cinematografico inglese come attrice particolarmente
dotata per ruoli drammatici e la performance nel film della Cavani è
in linea con il tipo di personaggio sul quale si è costruita la sua
fama, come testimonia, un anno dopo, il ruolo di co-protagonista nel
film Amleto
(1990) al fianco di Mel Gibson. Ofelia, ruolo congeniale all’attrice,
ripropone in parte il modello di Chiara, della donna dall’aspetto
gracile, segnata da un biancore spettrale che ne denuncia la
femminilità algida e, allo stesso tempo, la profonda sensibilità.
Ma
torniamo a Mickey Rourke e alla sua immagine cinematograficamente
‘eretica’. La sfida della regista è di destituire l’immagine
dell’attore dalle connotazioni di cui si è detto: il percorso di
fede del santo, culminante nel ricevimento delle stigmate, nel
Francesco
della Cavani è funzionale ad una vera e propria ‘trasfigurazione’
del sex-symbol Mickey Rourke.
La
scena in cui Francesco per la prima volta incontra un eretico nelle
acque del lago segna l’incipit del suo percorso, caratterizzato da
un’abissale lontananza dal messaggio cristologico che si riflette
nella bellezza e floridezza del corpo. L’attore che, con il torso
nudo, emerge dalle acque del lago dopo il bagno è una compiaciuta
celebrazione della sensualità del corpo, dei muscoli scolpiti del
pugile Rourke.
Quindi
il corpo-Rourke è oggetto di scherno e di ridicolo come testimonia
la scena in cui egli si spoglia delle vesti nella contesa giudiziaria
col padre e la sua nudità, per la prima volta sugli schermi
cinematografici di tutto il mondo, diviene oggetto di riso e di
beffa. Quindi lo incontriamo di nuovo mentre chiede l’elemosina
subendo l’indifferenza e la scortesia della gente. Ma ciò che
sorprende di più è la piccola scodella per la questua che si porta
appresso, sproporzionata rispetto al fabbisogno alimentare di cui
quel corpo grande e prestante necessiterebbe.
L’umiliazione
morale e corporale raggiunge l’apice nella scena in cui i vecchi
amici di Francesco gli gettano addosso degli escrementi invitandolo a
cibarsene mentre egli, indifeso, subisce l’affronto.
Non
si può obliare, d’altra parte, la sequenza in cui Francesco-Rourke
comprime la neve sui genitali per assopire i bollori carnali, un vero
e proprio contrappasso rispetto alla vocazione di seduttore di cui la
sua immagine si ammanta.
La
prima vera crisi del santo sembra coincidere con la stesura della
regola francescana, considerata troppo dura e disumana dalla
crescente comunità di discepoli. È a questo punto che il
corpo-Rourke subisce un vero e proprio processo di mortificazione:
sul viso compaiono bozze di carne putrescente, gli occhi sono gonfi e
arrossati per le lacrime, un biancore spettrale tinge l’incarnato
di un uomo che emette gemiti infantili.
L’attore
è quasi irriconoscibile tanto la regista ha infierito, tramite il
trucco e la direzione di una recitazione tesa e, sul suo volto di
larva e per di più insistendo sui primi piani offrendoci la
geografia di una terra martoriata e per di più invitandoci a
riconoscerne la realtà, sfruttando contemporaneamente le due opposte
possibilità presenti nella pratica cinematografica, quella
dell’attestazione di verità per la natura indicale del mezzo, e
quella dell’invenzione artificiosa; un sodalizio che legittima un
viaggio verso i territori dell’immaginario a metà strada tra
realistico e illusorio, fantastico e documentario, fedele e infedele.
D’altra
parte è la stessa regista che insiste sull’importanza della
corporeità nel Francesco:
“Vorrei anche dire qualcosa sull’esperienza della fisicità di
Francesco, cioè l’espressione della testimonianza non attraverso
le parole o le dichiarazioni, ma solo attraverso l’uso del corpo”24.
Declinando tali affermazioni sulla nostra ipotesi potremmo ipotizzare
che ‘vilipendere’ il corpo di Mickey Rourke è funzionale al
dissolvimento del feticcio che come un’aurea avvolge la sua
immagine e, di conseguenza, favorisce l’emersione del carisma più
genuino, della natura istintiva e spontanea dell’uomo-Rourke.
Quando
la Cavani dichiara: “L’esperienza di Francesco pare quasi un
sogno impossibile… Forse ho voluto raccontarla per crederci”25,
forse pensa anche al tipo di operazione sopra descritto: liberare
l’attore dalla condizione di asservimento all’immagine fabbricata
per lui dalla logica dello star-system attraverso un effetto
perturbante. Legittimità a questa proposta è conferita dalle stesse
affermazioni della regista: “Faccio di tutto per non commuovere gli
spettatori. Non mi interessa fare piangere la gente ma farla
riflettere”26.
Il
corpo martoriato di Rourke cambia addirittura i connotati,
trasfigurandosi appunto, nella scena dell’antro cavernoso in cui si
appartano Francesco e Leone. Allorché Francesco gli confessa il
contatto con Dio nel “Deus mihi dixit”, un primissimo piano ne
inquadra il volto e si nota che l’occhio sinistro ha subito un
viraggio di colore: è quasi bianco. Non ci si crede, si
sente la necessità di stropicciare gli occhi e verificare se non ci
si trovi di fronte alla trasformazione di un licantropo, degna di un
film horror. Si tratta di una vera e propria epifania cinematografica
resa possibile però dalla episodicità degli ‘effetti speciali’.
Un’ulteriore dimostrazione di come nel cinema di Liliana Cavani, nella oscillazione di opacità e trasparenza della rappresentazione, si incunea la magia del cinema e la sua verità in quanto ‘traccia’ del reale.
1
S. Borelli, “Fare cinema come ricerca di orientamento” in Il
cinema di Liliana Cavani: atti del convegno: Carpi 25 febbraio-3
marzo 1990, a cura di Primo Goldoni, Grafis Edizioni,
Casalecchio di Reno 1993, p. 51, 54
2
G. Bozza, “Il senso della storia per vivere il presente” in
Liliana Cavani. Lo sguardo e il labirinto, Associazione Fondo
Liliana Cavani, 2003, p. 11
3
Intervista a cura di Bruno Blasi in “Panorama”, 23.3.1989
4
Ibidem
5
Dichiarazione di Liliana Cavani raccolta da R. F. in “La Fiera
Letteraria”, 10.3.1974 e riportata ne Lo sguardo libero, a
cura di P. Tallarigo e Luca Gasparini, La Casa Usher, Firenze 1990,
p. 66
6
P. P. Pasolini, in “Cinema Nuovo”, n. 229, maggio-giugno 1974
7
Intervista con Lietta Tornabuoni riportata ne Lo sguardo libero,
a cura di P. Tallarigo e Luca Gasparini, La Casa Usher, Firenze
1990, p. 13
8
Ibidem, p. 14
9
Intervista con Liliana Cavani a cura di Ciriaco Tiso riportata in
Liliana Cavani, La Nuova Italia, Firenze 1975, p. 2
10
C. Tiso, Liliana Cavani, La Nuova Italia, Firenze 1975, pp.
86-87
11
F. Buscemi, Invito al cinema di Liliana Cavani, Mursia
Editore, Milano 1996, p. 65
12
P. P. Pasolini, in “Cinema Nuovo”, n. 229, maggio-giugno 1974
13
A. Bazin, “Morte ogni pomeriggio” in Che cosa è il cinema?,
Garzanti Editore, Milano 1999, p. 31-32
14
F. Buscemi, Invito al cinema di Liliana Cavani, Mursia
Editore, Milano 1996, p. 68
15
G. Grazzini, “Lo scandalo della verità” in Il cinema di
Liliana Cavani: atti del convegno: Carpi 25 febbraio-3 marzo 1990,
a cura di Primo Goldoni, Grafis Edizioni, Casalecchio di Reno 1993,
p. 143
16
Intervista con Lietta Tornabuoni riportata ne Lo sguardo libero,
a cura di P. Tallarigo e Luca Gasparini, La Casa Usher, Firenze
1990, p. 14
17
G. Marrone, Lo sguardo e il labirinto, Marsilio Editori,
Venezia 2003, p. 25
18
Intervista con Liliana Cavani a cura di Ciriaco Tiso riportata in
Liliana Cavani, La Nuova Italia, Firenze 1975, p. 11
19
D. Maraini, Ma tu chi eri? Interviste sull’infanzia,
Bompiani, Milano 1973, pp. 75-87
20
Intervista con Lietta Tornabuoni riportata ne Lo sguardo libero,
a cura di P. Tallarigo e Luca Gasparini, La Casa Usher, Firenze
1990, p. 14
21
C. Clouzot, Entretien: Liliana Cavani,
le mythe, le sexe et la révolte,
« Ecran 74 », n. 26, giugno 1974, p. 38
22
C. Laurenzi, “Il Giornale Nuovo”, 23.3.1989
23
T. Kezich, “Corriere della Sera”, 23.3.1989
24
L. Cavani, “Litterae Communionis”, anno XVI, n. 10, ottobre 1989
25
Intervista a Liliana Cavani riportata in F. Di Giammatteo, “Cavani:
la nausea del diverso, il rifiuto del dubbio” ne Lo sguardo
libero, a cura di P. Tallarigo e Luca Gasparini, La Casa Usher,
Firenze 1990, p. 16
26
C. Clouzot, Entretien: Liliana Cavani,
le mythe, le sexe et la révolte,
« Ecran 74 », n. 26, giugno 1974, p. 38