Cotton
Club (The
Cotton Club, 1984)
Sceneggiatura:
William Kennedy, Francis Coppola e Mario Puzo, ispirata al libro
fotografico: The Cotton Club: a
Pictorial and Social History of the Most Famous Symbol of the Jazz
Era, di Jim Haskins
Fotografia
(Technicolor): Stephen Goldblatt
Montaggio:
Barry Malkin, Robert Q. Lovett
Suono:
Edward Beyer
Scenografia:
Richard Sylbert
Coreografia:
Michael Smuin e Hanry Le Tang
Musica: John
Barry, Bob Wilber (brani originali di Duke Ellington e Cab Calloway)
Produzione: Robert
Evans per la Totally Indipendent Ltd.
Durata: 128’
Interpreti: Richard
Gere (Dixie Dwyer), Nicholas Cage (Vincent ‘Mad Dog’ Dwyer), Gwen
Verdon (mamma Dwyer), Gregory Hines (Sandman Williams), Maurice Hines
(Clay Williams), James Remar ( Dutch Schultz), Julian Beck (Sol
Weinstein), John Ryan (Joe Flynn), Diane Lane (Vera Cicero), Lonette
McKee (Lila Rose Oliver), Bob Hoskins (Owney Madden), Fred Gwynne
(Frenchy), Allen Garfield (Abbadabba Berman), Larry Fishburne (Bumpy
Rhodes), Tom Waits (Irving Stark), Joe D’Alessandro (Lucky
Luciano), Zane Mark (Duke Ellington), Larry Marshall (Cab Calloway),
Gregory Rozakis (Charlie Chaplin), Vincent Jerosa (James Cagney).
Breve sinossi: Nel
mitico locale di Harlem, il Cotton Club, in un arco di tempo che va
dal 1928 al 1931, si avvicendano le vite di gangster, ballerini,
cantanti, personaggi noti e meno noti che assistono agli spettacoli
memorabili di Duke Ellington, Cab Calloway e altri artisti di fama
mondiale. È l’era del proibizionismo e gruppi di gangster rivali
si contendono il mercato illegale degli alcolici. Il famigerato
gangster Dutch Schultz s’impone per efferatezza ma presto sconterà
il suo debito con la morte, fatto fuori dai sicari di Lucky Luciano,
alleatosi con Owney Madden, il proprietario del Cotton Club. La morte
del gangster consentirà all’amante Vera Cicero di coronare l’amore
per il trombettista Dixie Dwyer che nel frattempo farà carriera ad
Hollywood interpretando ruoli di capimafia. Parallelamente si
sviluppano le vicende della cantante mulatta Lila Rose Oliver e del
ballerino di tip-tap nero Sandman Williams, entrambi determinati a
sfondare nel mondo dello spettacolo anche a discapito degli affetti
famigliari… Intorno a loro si muovono le vite di madri di famiglia,
scugnizzi e scagnozzi sfortunati come il fratello di Dixie, Vincent
“Mad Dog” Dwyer, destinato a finire trivellato di colpi come il
suo capo, Dutch Schultz.
Sullo sfondo delle
vicende narrate è la sottile segregazione tra bianchi e neri che
vuole che sul palco del Cotton Club si esibiscano i neri mentre il
pubblico sia costituito di soli bianchi.
In Cotton Club la
componente meta-cinematografica informa tutta la pellicola e di
questa Coppola si avvale per perpetrare un’operazione di
sovvertimento delle logiche di produzione del sistema hollywoodiano.
Cotton Club, a conti fatti, è un piano diabolico che ostenta
buon viso a cattivo gioco. Con una metafora si potrebbe dire che è
Coppola il vero ed abile gangster del film. Paradossalmente, sebbene
si tratti di un gangster movie, sembra che egli ne voglia
negare la legittimità erodendolo dall’interno. Basti pensare al
film nel film, Mob Boss, il cui protagonista è interpretato
da Dixie Dwyer, che del gangster non ha nulla se non, forse, la
controfigura… Dixie è una mosca bianca non solo tra i musicisti
neri coi quali si abbandona a informali jazz sessions ma anche
per quella nota sentimental-malinconica, dal sapore di soap opera,
che sortisce un effetto stridente in diverse occasioni: nel dialogo
col fratello Vincent “Mad Dog” Dwyer alle prese con il rapimento
di Frenchy, nell’intimità con Vera, e nel diverbio con Dutch nel
locale della ragazza. Dixie si lancia in polpettoni moralisti che
servono solo a sospendere temporaneamente l’azione producendo un
effetto straniante, come se l’attore avesse sbagliato battuta e il
suo interlocutore non sapesse come proseguire: «Cosa fai Dutch? Tu
fai del male a tutti. Vuoi strapparle il cuore? E intrometterti
sempre nella vita degli altri? Per l’amor di Dio, credi di essere
Gengis Khan? Tu trasformi la vita delle persone in merda. Quanti
ancora ne vuoi ammazzare?»1.
Ancora più disarmante è la confidenza che Dixie fa a Dutch,
asserendo che tutto ciò che ha imparato sui gangster lo deve proprio
a lui, spodestando così il più cattivo dei cattivi del titolo di
capomafia. A tale operazione contribuisce anche la caratterizzazione
del rapporto di Dutch con la moglie che lo tratta come uno zimbello,
ridicolizzandolo attraverso le scenate di gelosia e dunque
proiettandone la figura sullo sfondo della farsa. Che dire poi
dell’improbabile coppia Owney/Frenchy? Paiono una rivisitazione di
Stanlio e Ollio nelle due gag che li vedono protagonisti:
quella in cui urinano serenamente nel bagno ammettendo
l’impossibilità di vivere l’uno senza l’altro e quella
veramente esilarante “dell’orologio” che segue il rilascio di
Frenchy, rapito da “Mad Dog”.
Sgomberato il campo dai
veri gangster, Coppola imbraccia il mitra e trivella di colpi una
produzione da 50 milioni di dollari, aggirando sottilmente il
“proibizionismo hollywoodiano”, vero bersaglio di questa
operazione cinematografica: «Andare a proporre un film in America è
come andare davanti ad una commissione dei Soviet. Guai se non
rientri nelle categorie di ‘prodotto’ previste. Ormai in America
o fai delle commedie demenziali o delle space operas, o delle soap
operas. Dopo di che puoi usare lo stile e il linguaggio che vuoi,
purché ci sia del naturalismo. Se provi ad uscire da questi schemi è
la fine»2.
Ciò che importa è fare sold out al botteghino, ovvero
ricevere i plausi del pubblico pagante come quelli che al vero inizio
del film sono rivolti alle ballerine "alte, ambrate e
fantastiche" che danzano sulla pista del Cotton Club, e ai
titoli di testa, in cui i nomi degli attori e della produzione sono
scritti obliquamente, in omaggio agli anni Trenta, e in un formato
tridimensionale, tronfi di una gloria che deriva loro dall’essere
assurti allo star system. Con una simmetria impeccabile, che
non può non essere il frutto di un piano finemente premeditato, alla
fine del film si ripete lo scroscio di applausi che suggella l’happy
end e la straordinaria compenetrazione della dimensione reale
(fittizia) con quella fantastica veicolata dal musical che in
questa ultima parte diviene appunto debordante, eccessivo,
contaminante. La realtà diviene un palcoscenico in cui le diverse
trame e fili del film pervengono ad una risoluzione. E tra coloro che
applaudono assume un ruolo chiave un uomo che ha probabilmente
dormito per l’intera durata dello spettacolo e, una volta destatosi
per il fragore delle mani battenti, preso nel vortice dell’euforia
degli astanti, inizia ad applaudire pure lui… Senza cognizione di
causa? Perché richiamato dal gregge? L’interrogativo è davvero
cruciale per comprendere le ragioni che sottendono le intenzioni del
regista.
Nonostante l’impeccabile
struttura della trama, costruita sulle simmetrie dei plots
delle coppie di bianchi e neri (Vera/Dixie, Angelina/Sandman, Mad
Dog/Clay, Owney-Frenchy/Dutch) e la musica e le performance
spettacolari che rendono gloria alla memoria del locale di Harlem, la
maggior parte della critica ha riconosciuto che l’operazione
coppoliana è stata fallimentare, non solo rispetto agli incassi ma
anche per un «congelamento, questo rigor mortis di un
progetto intellettualistico e cerebrale» per cui Cotton Club
risulterebbe «raffreddato o meglio “freddato” […] da
un’intelligenza da computer»3.
D’altra parte la cerebralità dell’operazione è apertamente
dichiarata nella scena che segue il montage sequence dedicato
alla carriera di Dixie nel cinema e alla grande depressione del 1929:
Frances, la moglie di Dutch, sta completando un cruciverba inserendo
la parola gangster, che non a caso s’incrocia con le parole
rids e rages a descrivere il clima dei crime movies.
Non solo, altri incroci di parole descrivono la costellazione dei
significati entro cui si muovono le gang rivali impegnate nel
traffico illecito di alcolici durante il proibizionismo (spar,
paid, unite, beer, war) e l’ambiente
ricco e raffinato della malavita (spas, oleos, chics).
Coppola ammicca giocosamente allo spettatore rivelandogli le regole
dello spettacolo e importunandolo perché gli impedisce di
abbandonarsi alla trama che ha confezionato appositamente per il
piacere dell’entertainment. Lo mette puntualmente di fronte
alla sua posizione di spettatore come nello straordinario «tip tap
luttuoso»4
in cui si esibisce Sandman Williams che, facendo le veci di un rullo
di tamburi, scandisce i passi compiuti dai sicari di Lucky Luciano,
il parvenue della nuova scena mafiosa, che segneranno la fine
del vecchio boss, Dutch.
La performance di Sandman culmina
nell’omicidio ‘trionfale’ di Dutch, suggellato dai soliti
plausi dello spettatore in/out, fittizio/reale che, dietro il
pretesto della finzione e della mendacità del simulacro, fonda la
glorificazione e sacralizzazione della violenza, motivo ispiratore di
Apocalypse Now (id., 1979). La spettacolarizzazione
della violenza conduce alla sua inevitabile (e supposta) innocuità.
Ciò viene ribadito in un’altra scena, certo più scanzonata, ma
ugualmente potente. Si tratta del diverbio danzante tra Dixie e Vera
al Bamville Club. I due si schiaffeggiano mentre ballano sulla pista,
circondati da altre coppie, ma nessuno prende sul serio l’evento,
anzi viene interpretato come un nuovo ballo, magari di ascendenza
dadaista, che viene presto emulato! Così, per il semplice fatto di
avvenire sullo stage, al cinema o a teatro, la realtà viene
travisata, edulcorata, riaffermando il potere del simulacro.
Cotton Club è un
film forse troppo bello, leccato, spasmodicamente filologico (basti
pensare ai mascherini ad aride o a tendina che separano una scena
dall’altra) ma anche “frankensteiniano”, non solo per la
presenza fisica e vocale di Fred Gwynne, ma soprattutto per la
maniacale, “fanatica” ricostruzione degli ambienti e dei
personaggi che a cavallo degli anni Venti e Trenta popolavano il noto
locale di Harlem e che suggeriscono a Coppola la sfilata dei sosia di
Duke Ellington, di Cab Calloway, di Armstrong, di Charlie Chaplin, di
Gloria Swanson e così via. Così il palcoscenico e il backstage
del Cotton Club si trasformano in un sovraffollato museo delle cere
che reca con sé un indelebile marchio mortifero, una delle cifre del
cinema di Coppola che acquisirà sostanza concreta nel film Dracula
di Bram Stocker (Bram Stocker’s Dracula, 1992).
Sebbene Coppola affidi,
apparentemente, la buona riuscita del film ai godibilissimi
spettacoli musicali e di danza e all’avvincente e ben orchestrato
arrangiamento dei plots e subplots narrativi, tuttavia
ne mina, dall’interno, il successo commerciale attraverso diversi
accorgimenti: privando il personaggio del gangster di un’anima,
nonché appiattendo tutti i comprimari attraverso un’estenuata
estetizzazione o un gusto di tipo macchiettistico; chiamando in causa
lo spettatore facendogli “scontare” il piacere della visione;
disorientando la critica attraverso un’operazione di ibridazione
condotta su due livelli, ovvero facendo convergere i due generi
classici del cinema hollywoodiano, il musical e il gangster
movie, e proponendo un rimescolamento del suo stesso cinema,
tanto che Cotton Club parrebbe nascere dalla rilettura de Il
padrino (The Godfather, 1972) attraverso Un sogno lungo
un giorno (One from the Heart, 1982)5.
di Rebecca Amanda Snyder
1
Traduzione mia
2
Da interviste a «L’unità» e «La Repubblica» del 23-12-1984,
cit. in F. LA POLLA, Cotton Club, in «Cineforum», n. 241,
Gennaio 1984, in Francis Ford Coppola: The Last Tycoon,
Rimini/cinema, stampa 1986, p. 59
3
V. ZAGARRIO, Francis Ford Coppola, Il castoro, Roma 1995, p.
97
4
R. TROTTA, Francis Ford Coppola, Le mani, Recco 1996, pp.
44-46
5
V. ZAGARRIO, Francis Ford Coppola, cit., p. 94
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