Year
of the Horse (1997), trad. it.
L’anno del cavallo
Regia: Jim
Jarmusch; fotografia (35 mm, col. Eb/n): L.A. Johnson, Jim
Jarmusch; montaggio: Jay Rabinowitz; suono: Tim
Mulligan; musica: Neil Young & Crazy Horse; interpreti:
Neil Young, Ralph Molina, Frank «Poncho» Sampedro, Billy Talbot;
produzione: Bernard Shakey, Elliot Rabinowitz, L.A. Johnson
per Shakey Pictures; origine U.S.A.; durata: 105’;
Festivals: presentato alla Mostra del Cinema di Venezia nel
settembre del 1997
Il rock’n roll movie
assemblato da Jarmusch sulla band dei Crazy Horse, capeggiata da Neil
Young, è insieme un omaggio ad uno dei cantautori prediletti dal
regista newyorkese nonché l’occasione per restituire un favore
all’artista per la composizione della colonna sonora di Dead Man
(1994). Nondimeno il documentario gli consente di creare un
prodotto in cui la musica riveste, finalmente e compiutamente, un
ruolo da protagonista. La filmografia del regista è infatti
costellata di collaborazioni con musicisti che hanno contribuito ai
suoi lavori in qualità di co-registi-sceneggiatori (John Lurie) o
prestando brani musicali o le loro poderose e sensuali sembianze allo
sguardo rispettoso seppure impietoso della cinepresa (Tom Waits, Iggy
Pop, Screamin’ Jay Hawkins, Jack e Meg White).
La musica, nei suoi film,
si lega strettamente alle azioni dei personaggi, non è mai semplice
accompagnamento1
e in Year of the Horse ne diviene la protagonista assoluta
facendo esplodere tutta la sua valenza magica e ipnotica, effetto che
viene potenziato dal suono in Dolby Digital. Fuckin’Up,
Slip Away, Barstool Blues, Stupid Girl,
Tonight’s the Night, Big Time, Sedan Delivery,
Like a Hurricane e l’acustica Music Arcade sono le
canzoni che scandiscono le tappe del tour e offrono ai fans di Neil
Young, Ralph Molina, Billy Talbot e Frank “Poncho” Sampedro
un’esperienza acustica irripetibile, simile alla trance, garantita
dalla perfetta armonia e coesione del gruppo. Le riprese
rispettosamente frontali o tutt’al più scivolanti sull’asse di
ripresa fino a intercettare frenetiche dita che graffiano le corde di
una chitarra elettrica, fanno trasparire la volontà del regista di
preservare la “sacralità” dell’evento per non inficiarne la
freschezza. Tutt’al più Jarmusch tenta di restituire la magia
della musica attraverso il caleidoscopico montaggio della luce dei
ceri collocati sul palco e riprendendo Young mentre, in una sorta di
rituale sciamanico, attraversa il palco in lungo e in largo recando
sul palmo della mano un grosso cero che poi, a canzone ultimata,
viene scaraventato in terra a suggellare la fine della performance
musicale. Purtroppo lo schermo cinematografico, alle volte fatalmente
piatto e impermeabile alle emozioni, non sempre restituisce tale
magia e in ciò risiede un limite del film.
Le performances
lunghe ed estenuate di Young (durante il concerto di Vienne in
Francia, e quello di Gorge nello stato di Washington), che hanno
messo a dura prova una parte di critica poco incline a riconoscere
legittimità artistica al “teatro filmato”, contrappuntano come
pietre miliari un tessuto narrativo frastagliato, spurio, composto di
materiali attinti da fonti diverse e che si avvalgono di supporti
eterogenei, quali il 16 mm, il Super 8, il video Hi-8. L’epopea del
gruppo è raccontata attraverso inserzioni di backstage del tour del
1976 proveniente dalla cineteca personale di Neil Young, mentre il
materiale del 1986 proviene dal documentario Muddy Track
(1986), girato dallo stesso Young sotto lo pseudonimo di Bernard
Shakey. Le interviste ai componenti della band, al padre di Young, ai
tecnici, il materiale fotografico che documenta la parabola dolorosa
delle vite del chitarrista Danny Whitten, del roadie Bruce
Berry e del produttore David Briggs e, infine, un inserto di
animazione (Red Ball Express) firmato da Steve Segal,
completano il ritratto della band, le cui cifre essenziali sono
l’energia, la potenza e anche la fierezza, come si evince da una
delle didascalie che campeggiano sullo schermo e che rimanda al nome
della band ma anche al capo pellerossa cui questa si ispira, Crazy
Horse, descritto con le parole independent, generous,
energetic, open.
E il vessillo dell’indipendenza
viene impugnato fin dalle prime pagine del diario visivo della band,
girato orgogliosamente in Super 8. Il “manifesto” grunge,
graffiante e tuttavia scanzonato, come si evince dalle foto
segnaletiche attraverso cui vengono presentati i componenti della
band, si fa dunque esplicito nella volontà di utilizzare un formato
sporco e sgranato in perfetta continuità con una scenografia
minimalista e, forse, affettatamente trasandata e pop: una sedia e
una lavatrice sullo sfondo di una stanza spoglia sono gli unici
arredi di un “garage” dove vengono intervistati i musicisti.
Insomma, fin dalle prime battute, l’atteggiamento è di sfida e di
manifesta provocazione, seppure stemperato da un’ironia quasi
grottesca in cui l’ “umanesimo” di Young incontra,
provvidenzialmente, la tempra malinconica di Jarmusch. Ma tale
equilibrio è fragile e la personalità del regista viene sopraffatta
dal carisma trascinante di Young. Year of the Horse è un
figlio illegittimo di Jarmusch, non c’è posto qui per i suoi
diseredati e flâneurs malinconici. L’elezione crepuscolare del
cinepoeta che si considera «a minor poet who writes fairly small
poems»2
viene spazzata via dal vento beat del monumentale Young, il re
dei diseredati, colui che, con la levità e l’irresistibile
innocenza di un infante nonché il “pragmatismo” di un americano,
può sfidare addirittura Dio in persona («Chi credi di essere,
Dio?», «Sì, già»), incontrare un tizio di nome Jesus
all’Hammersmith Odeon di Londra e augurargli, questa volta, di
farcela ed infine rianimare l’antica sede di un anfiteatro romano
sulle rive del Rodano (Vienne in Francia) con la magia della musica e
la carica magnetica della sua presenza fisica, immortalandosi
cariatide della musica («Il teatro è vecchio, la chitarra è una
Old Black, io (Cragg, tecnico del sound per la chitarra) sono
vecchio, i Crazy Horse son vecchi, e l’attrezzatura è vecchia»).
Così pure il viaggio
visivo on the road al seguito della band, solcato dalle highways
americane e da nuvole infiammate al tramonto, è un omaggio al
paesaggio americano delle praterie sterminate, alla libertà dei
roadies della beat generation. È un paesaggio fortemente
evocativo ma che poco ha a che spartire con quello più concettuale e
interiore di Jarmusch, poco incline a riconoscerne la referenzialità,
per esempio nella riconoscibilità geografica dei luoghi, ma
piuttosto a rivelarne aspetti inattesi e stranianti che tradiscono la
lezione surrealista: si pensi al muro bainco di neve di Cleveland o
al grigiore desolante della Florida in Stranger than Paradise
(1984), o ancora alla città di New York in Permanent Vacation
(1980), colta come discarica post-atomica o sobborgo diroccato e
infestato di vegetazione parassitaria.
Non diversamente i luoghi
in between tanto cari a Jarmusch che, in Year of the Horse,
si concretizzano nelle stanze d’albergo, negli angusti corridoi del
backstage e in interni di autobus, trovano la loro controparte nel
palcoscenico, luogo naturale dell’attività performativa di Neil
Young e dei Crazy Horse. Là si compone l’universo jarmuschiano
delle facezie quotidiane contrassegnate da un’irresistibile
leggerezza dell’essere, mentre sul palco prende forma la pregnante
poetica di Young. È così che Year of the Horse acquista il
suo ritmo nell’alternanza di pieni e vuoti, di forte e
piano, frutto di un lavoro corale, come lascia intendere
Jarmusch quando abbandona la cinepresa e dunque la sua posizione di
privilegiato orchestratore del lavoro e si fa riprendere accanto
all’amico e collega Young.
di Rebecca Amanda Snyder
1
MOSCA UMBERTO, Jim Jarmusch, Il Castoro Cinema, Milano 2000, p. 8.
2
intervista realizzata nel 1989 in Luc Sante, “Mistery Man”, in
AA.VV., Jim Jarmusch Interviews, a cura di L. HERTZBERG,
University Press of Mississippi, 2001, p. 92
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