Non torno a casa
stasera (The Rain People, 1969)
Sceneggiatura: Francis Ford
Coppola da un suo racconto inedito
Fotografia (Technicolor):
Wilmer Butler
Montaggio: Blackie Malkin
Suono: Walter Murch e Nathan
Boxer
Scenografia: Leon Erickson
Musica: Ronald Stein e Carmine
Coppola
Produzione: Bart Patton e Ronald
Colby per Warner Bros
Durata: 102’
Interpreti:
Shirley Knight (Natalie Ravenna), James Caan (Kilgannon, detto
Killer), Robert Duvall (Gordon), Marya Zimmet (Rosalie), Tom Aldredge
(Alfred), Laurie Crewes (Ellen), Andrew Duncan (padre di Ellen),
Margaret Fairchild (madre di Ellen)
Premi: Gran Premio
del festival di San Sebastian, 1969, come miglior film e miglior
regia
Breve sinossi: Natalie
Ravenna è una giovane donna incinta alle prese con le ansie e le
paure del divenire madre. Una mattina decide di lasciare la casa dove
vive col marito e partire senza meta, alla ricerca della propria
identità. Lungo il viaggio incontrerà Kilganon, detto Killer. Il
ragazzo ha subito un grave incidente durante una partita di rugby che
gli è costato un ritardo mentale e un’innocenza disarmante.
Congedato dal college in cui studiava con una piccola somma di
danaro, è solo al mondo. Ella se ne prende cura come fosse suo
figlio: cercherà di affidarlo alla famiglia di un’amica del
ragazzo e di trovargli un lavoro ma i suoi tentativi si dimostreranno
vani. Quando infine deciderà di “adottarlo” e dunque di avverare
il suo destino di madre, sarà troppo tardi perché Killer, nel
tentativo di salvarla dalle grinfie dell’agente Gordon, l’uomo
con cui Natalie si era volontariamente appartata, le morrà in grembo
dopo essere stato freddato dai colpi di pistola sparati dalla figlia
del poliziotto.
The Rain People è
un “film di formazione”, imperniato sulla vicenda di una giovane
donna che, frustrata dalla vita famigliare-domestica e dall’imminente
maternità, decide, in una mattina piovosa, di lasciare la casa
maritale e partire senza una meta, a bordo della sua station wagon,
alla ricerca della propria identità o, più cinicamente, con
l’intenzione di consumare il proprio addio al nubilato.
L’arrovellamento interiore di Natalie Ravenna è espresso
magistralmente dal colpo di genio del regista che nelle prime
inquadrature è intento a mettere letteralmente a fuoco, e dunque a
conferire nitidezza, alle paure di una donna che si sente inadeguata
al ruolo di madre: la prigione dei legami e delle responsabilità
famigliari si reificano nelle catene che sostengono i sedili di due
altalene in un parco vicino casa. Nei due flash-back della sua vita
comprendiamo ch’ella si dibatte tra l’amore istituzionalizzato
nel matrimonio e l’amore appassionato, selvaggio, libero consumato
nell’atto sessuale. In The Rain People il tema del
matrimonio come legame di potere e giuramento verrà ripreso,
evidentemente con ben altro spessore, nel film successivo, Il
Padrino (The Godfather, 1972), capolavoro di Coppola. Ma
questo film contiene in nuce anche altri elementi che lo
raccordano a opere più mature come La conversazione (The
Conversation, 1974). Il marito di Natalie, Vinny, non lo
conosciamo attraverso le sembianze fisiche (eccetto per la scena
iniziale quando lo scorgiamo abbracciato alla moglie nel letto e per
una fotografia che ella conserva nel portafoglio) ma attraverso la
voce e il dialogo che intrattiene con la moglie che lo contatta da
tre sperdute cabine telefoniche degli Stati Uniti. Tre momenti che
scandiscono i tre atti del film e che segnano la graduale
trasformazione nel rapporto di coppia: Natalie imparerà ad assumersi
le proprie responsabilità grazie all’incontro con Killer mentre il
marito, per la gioia delle femministe, sarà costretto, dalla
determinazione di lei, a deporre le armi di uomo autoritario e
possessivo e rispettare il volere della moglie, anche se questo
significa l’aborto del figlio che porta in grembo. Sta di fatto
però che Natalie non è in grado di affrontare il marito vis à
vis, la sua totale presenza fisica la disarmerebbe, perciò si
relaziona con un surrogato, la voce di lui filtrata da un telefono a
gettoni. Vinny è una voce, la voce è il fantasma di Vinny. La voce
è un riflesso della persona e ne rivela dunque solo dei dati
parziali. Questo è uno dei temi attorno al quale ruota La
conversazione: nella spasmodica ricerca della verità su un
delitto che si sta per compiere, l’investigatore privato Harry Caul
(Gene Hackman) cerca di dipanare il filo aggrovigliato di una
conversazione che ha intercettato su commissione. Ma la verità che
emergerà dalla maniacale dedizione di Harry è parziale, anzi si
rivelerà uno dei tasselli di un piano diabolico in cui anch’egli
si ritroverà incastrato.
Natalie ribadisce la
preferenza per l’abolizione della presenza del corpo-realtà nel
momento in cui decide di unirsi all’agente Gordon. Preferisce stare
al buio: «è meglio, così mi piace, è come se parlassimo al
telefono». La voce ha dunque un forte potere evocativo, anche se il
rischio è quello di deformare la realtà…
Il gusto per la
smaterializzazione dei corpi e, specularmente, la materializzazione
dei fantasmi è evidente, fin da questo primo saggio d’autore,
nella scena in cui Natalie, attraverso una sorta di rituale di
seduzione, invita Killer ad entrare nella camera del motel dove si
sono fermati per la notte.
Il trucco pesante sul
volto ne marca la personalità schizofrenica (per usare le parole di
Coppola), esplicitamente, e un po’ accademicamente, dichiarata
nello sdoppiamento del volto allo specchio.
La sequenza che segue è
un pezzo da fuoriclasse e anche un manifesto della poetica di
Coppola: i fantasmi prendono vita e si apre uno squarcio nel
territorio del fantastico… Natalie e Killer, grazie ad un ben
congegnato sistema di specchi, si parlano senza che i loro sguardi si
incrocino e anche quando i loro corpi si incontrano nella danza
difficilmente siamo in grado di localizzarli: potrebbero essere qui e
altrove.
La sequenza assume poi
toni esilaranti quando Natalie, mettendo in pratica il proprio
manuale di seduzione, propone a Killer il gioco infantile «Simon
says…» attraverso il quale ella può dar sfogo alle proprie
velleità di dominatrice e femme fatale ma il ragazzo lo
prende alla lettera facendo crollare il mondo artificiale creato
dalla donna e rendendola ridicola ai propri occhi, seppur
involontariamente. E d’altra parte è proprio questa la funzione di
Killer all’interno del percorso di formazione di Natalie: fornire
alla donna uno specchio nel quale riflettersi e comprendere se
stessa.
Il candore e l’innocenza
di Killer (il cui nome stride decisamente col personaggio
conferendogli così una grande tenerezza), le domande apparentemente
puerili e banali che egli le pone sono imprescindibili per la
crescita di Natalie («Quali problemi ha?», «Perché se ne è
andata?», «Perché non sta con me?», «Mi vuole bene?»).
In questo senso Killer è
il compagno ideale per Natalie in cerca della propria identità,
un’accoppiata questa che si ritrova, come ha osservato Roger Ebert,
in qualsiasi buon road-movie: «La giovane moglie di The Rain People e il personaggio
interpretato da Peter Fonda in Easy Rider (id.,
Dennis Hopper, 1969) sono i discendenti del mitico Huckleberry
Finn. Le regole del gioco vogliono che il viaggio sia intrapreso
sempre da due compagni: l’uno complicato e problematico, l’altro
innocente e più spensierato. Così Huck Finn prende con sé lo
schiavo, Jim. Peter Fonda si accompagna ad un “fumato”
(interpretato da Dennis Hopper). Shirley Knight raccoglie un autostoppista (James Caan) che era
un giocatore di rugby al college prima che un colpo alla testa sul
campo lo rimbecillisse»1.
Alle piccole grandi
tragedie personali di Natalie e Killer si aggiunge la vicenda
dell’agente Gordon, segnato dalla perdita della moglie e di un
figlio nell’incendio divampato nella loro casa, e ora alle prese
con la figlia minore che non sa gestire. La patina dell’uniforme da
poliziotto, che proietta il personaggio di Gordon all’interno di
una costellazione di significati che descrivono il suo ruolo
istituzionale (sicurezza, autorità, legalità e così via), viene
letteralmente disintegrata dal regista tramite la scelta di farlo
piroettare sulla motocicletta come un pavone nell’atto di
corteggiare la bella Natalie. L’acme di questo processo di
smascheramento coincide con la presentazione dell’alloggio di
Gordon, una roulotte condivisa con la figlioletta, una piccola peste
che, oltre ad offrire uno spunto comico nella scena dell’inseguimento
tra padre e figlia, mette ancora più in risalto la condizione di
impotenza e precarietà vissuta da Gordon. Risulta quasi scontato
sottolineare le filiazioni di questo personaggio in Apocalypse Now
(id., 1979).
La drammaticità delle
sofferenze patite dai personaggi si stempera in questo film grazie
agli spunti comici e alle trovate esilaranti. Da ciò deriva il
carattere forte e delicato insieme che contraddistingue The Rain
People: la levità con cui vengono declinate le tragedie
personali dei personaggi contribuisce ad ammantare il film di
un’atmosfera da favola malinconica. Anche i luoghi risentono di
questo “umore”: se, come è stato giustamente notato, l’anonimità
e la desolazione dei luoghi tradiscono ascendenze dal cinema di
Antonioni, è anche vero che l’imprescindibile elemento pop
di certo paesaggio americano li riscatta da un sentimento di
solitudine senza sbocco. È il caso del drive-in, versione
diurna, cui approdano Natalie e Killer per ritrovare una vecchia
compagna di scuola del ragazzo. Si tratta di una sorta di cimitero in
cui le postazioni per le automobili sono marcate da quelle che paiono
“stele” funerarie. Eppure la desolazione del luogo è vivacizzata
dalla musica rock di sottofondo, dalle luci a forma di stella del
cabinotto dei tickets, e dalle scritte pop che
proliferano sulla facciata del chiosco del drive-in che, in tutto il
loro appeal, smorzano il carattere oppressivo del paesaggio e
contribuiscono a scongiurarne il senso di solitudine e
incomunicabilità.
Un ennesimo set
letteralmente popolato di scritte, la cui funzione è quella di
pubblicizzare un tipo di attrazione zoologica, è il parco delle
meraviglie gestito da Alfredo, «WHOA! HERE IT IS, NEBRASKA’S
REPTILE RANCH AND ZOO», il beffardo datore di lavoro di Killer. La
location è un luogo pieno di ogni cosa immaginabile: animali,
souvenirs, cinture, bambole, un cimitero per le macchine ecc…
Un genere di posto che non potrebbe mai essere ricostruito negli studios hollywoodiani ma è come un objet trouvé, un tesoro prezioso, espressione della più verace cultura popolare americana, scovato da Coppola e dalla sua troupe che, per cinque mesi, girò il film on the road, in esterni, trasferendosi su un camioncino attraverso mezza America, dallo stato di New York al Wyoming, sotto l’egida del progetto rivoluzionario dell’American Zoetrope, che portava con sé «l’ideologia antihollywoodiana - sia dal punto di vista del modo di produzione sia da quello della “poetica”» e attraverso il quale esplodeva «l’Europa e il mito del regista consacrato alla critica alta» e si ribadiva «la ‘ribellione’ allo star system»2.
Un genere di posto che non potrebbe mai essere ricostruito negli studios hollywoodiani ma è come un objet trouvé, un tesoro prezioso, espressione della più verace cultura popolare americana, scovato da Coppola e dalla sua troupe che, per cinque mesi, girò il film on the road, in esterni, trasferendosi su un camioncino attraverso mezza America, dallo stato di New York al Wyoming, sotto l’egida del progetto rivoluzionario dell’American Zoetrope, che portava con sé «l’ideologia antihollywoodiana - sia dal punto di vista del modo di produzione sia da quello della “poetica”» e attraverso il quale esplodeva «l’Europa e il mito del regista consacrato alla critica alta» e si ribadiva «la ‘ribellione’ allo star system»2.
di Rebecca Amanda Snyder
1
R. EBERT, The
Rain People, in
«Chicago Sun-Times», 19 settembre 1969, consultabile
all’indirizzo:
http://rogerebert.suntimes.com/apps/pbcs.dll/article?AID=/19690919/REVIEWS/909190301/1023
2
V. ZAGARRIO, Francis Ford Coppola, Il castoro, Roma 1995, p.
29
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