PROVIDENCE, 1978
Titolo
originale: Providence; Regia:
Alain Resnais; sceneggiatura:
David Mercer; fotografia:
Ricardo Aronovich; suono:
René Magnol (effetti elettroacustici: Jean Schwarz); montaggio:
Albert Jurgenson; scenografia:
Jacques Saulnier; costumi:
Catherine Leterrier; musiche:
Miklós Rósza interpreti:
John Gielgud (Clive Langham), Dirk Bogarde (Claud Langham), Ellen
Burstyn (Sonia Langham), David Warner (Kevin Woodford), Elaine
Stritch (Molly Langham e Helen Wiener), Denis Lawson (Dave Woodford),
Cyril Luckham (Mark Edington); produzione:
Michel Choquet, Antoine Gannagé per Action Film, SFP, FR3, Citel
Film (Ginevra); distribuzione:
durata:
110’; anno:
1978
Premi:
Premio César 1978 per la regia
Lo
scrittore Clive Langham, recluso nella propria atavica dimora, è
intento a porre mano al suo ultimo romanzo durante una notte insonne
innaffiata di Chablis e contrappuntata da ulcere e incubi spaventosi.
I protagonisti dell’opera sono i componenti della sua famiglia, sui
quali egli infierisce senza sosta, muovendo i fili dei loro destini e
facendone lo specchio di un’umanità alla deriva, destinata alla
regressione animale. In uno scenario apocalittico i funzionari di uno
stato tecnocratico militarizzano la città fantasma e predispongono
campi di concentramento per i reietti mentre in interni borghesi si
consumano gelosie e acredini famigliari.
Col
sorgere del nuovo giorno i fantasmi notturni si dileguano lasciando
il posto ad un idilliaco quadretto famigliare. Ma al di là delle
apparenze, interrogativi inquietanti serpeggiano tra i convitati …
Centrale
in Providence
è il discorso sulla creazione letteraria e, per estensione,
sull’origine e il processo dell’atto creativo, demandato
all’entità che dà il titolo al film: «da una parte, è il nome
della proprietà in cui uno dei personaggi principali (Clive
Langham) sta concludendo la
sua vita. Ma […] si può dire, ed è il secondo senso del titolo,
che egli si comporta con i suoi personaggi come le mani della
Provvidenza, di una Provvidenza spesso sarcastica, ma che non fa
sempre tutto quello che vuole»1.
L’ingerenza della mano ordinatrice di Clive sul destino dei
personaggi, grazie all’ “intermediazione” dello sceneggiatore
Mercer, s’inscrive nella lezione di Ronald D. Laing, per il quale i
colpevoli dei comportamenti devianti dei figli sono i genitori che a
quelli si sostituiscono deresponsabilizzandoli2.
In questo senso lo scrittore manipola le vite di coloro che
compongono il “romanzo” della sua famiglia interferendo o
proiettandosi nei loro vissuti personali. Eppure i personaggi
sfuggono puntualmente al suo controllo acquisendo autonomia e
apportando un contributo alla creazione dell’opera, avverando
un’istanza extratestuale: «La prima cosa che faccio sempre è dare
la totalità della sceneggiatura agli attori il più presto possibile
prima delle riprese, in maniera che possano esprimersi e apportare le
loro idee, che sono spesso eccellenti e che si possono qualche volta
aggiungere al film»3.
Clive
Langham non è dunque il meneur
de jeu o il “maestro di
cerimonia” dell’intera opera in quanto si fa condurre dal
racconto i cui fili sono forse manovrati, in ultima analisi, dal
regista e dallo sceneggiatore Mercer. Eppure anche questa ipotesi non
è del tutto convincente: «Si ha l’impressione che una
sceneggiatura non dipenda dalla volontà. Nasce così (…) Abbiamo
tentato di fare un cinema puramente istintivo»4.
Esiste
dunque un maître d’ ordre
che ha dato forma, stile, corpo e “musica” all’opera filmica?
Chi ne è l’artefice? Esiste una Provvidenza che, attraverso eventi
apparentemente casuali, ma in realtà ordinati, esegue le volontà di
un demiurgo misterioso?
Qual
miglior risposta poteva dare Resnais se non quella “criptata”
nella splendida sequenza iniziale? La mdp si attarda per diversi
secondi sull’insegna del nome della villa, Providence,
località del Rhode Island in cui H.P. Lovecraft nacque e morì in
una sorta di «clausura volontaria»5
così simile a quella di Clive. Poi parte un movimento
e lo sguardo vaga e si perde tra le foglie, i rami e le fronde degli
alberi senza più alcun appiglio ed orizzonte di riferimento.
Il
campo del quadro cinematografico diviene luogo di astrazione
temporale e spaziale: torna alla memoria la figura mitica del
labirinto, l’immagine di intricate sinapsi o circonvoluzioni
cerebrali, ovvero la moltitudine dei percorsi che si offrono al
creatore. L’occhieggiare della luce solare nell’intrico delle
fronde è il coacervo del ribollio delle idee, il brain
storming creativo che precede
la provvidenziale apparizione di un lume (nel film la plafoniera che
illumina l’ingresso dell’austera dimora di Clive) che queste
energie raccoglie e concentra per poi diffondere e ordinare nella
produzione artistica. Non si tratta più della luce solare, diffusa,
informe che filtra tra i rami degli alberi ma di un lume artificiale
e dunque cerebrale che ha un punto d’origine determinato e che
diffonde un nitido e circoscritto fascio luminoso. Così, per
l’intera durata del film, siamo traghettati nella memoria, nei
ricordi, nei desideri del vecchio scrittore, in balia di sprazzi di
lucidità o dell’assoluto ottenebramento della facoltà
raziocinante. Compiamo continui viaggi nel tempo (come il
protagonista di Je t’aime,
Je t’aime) all’interno di
un tessuto narrativo fortemente lacerato, ellittico, cortocircuitato
che trova eco nella mise-en-scène
e nelle location
del film, che contemplano ville “marienbadiane”, improbabili aule
di tribunali, pittoreschi sfondi di cartapesta e stadi adibiti a
campi di concentramento.
La
città “impossibile” in cui si svolgono i fatti, sebbene “fatta
a pezzi” con l’intento di «creare l’immagine di un paese
“esitante” come se il romanziere Clive non avesse ancora
scelto»6,
è un luogo che trascende ogni indicazione storica per situarsi in
una dimensione atemporale e dunque esemplare, come una novella
Babele, città della discordia e dell’incomprensione. E la metafora
biblica è particolarmente congeniale ad offrirci una chiave di
lettura del secondo atto del film, che è la costruzione lucida,
quanto mai disincantata nella sua amarezza, di un’umanità alla
deriva, di un paradiso perduto, luogo di perdizione e dannazione
abitato da vittime (i vecchi nelle strade deportati nello stadio per
essere giustiziati e gli uomini-lupo che assistono alla trasmutazione
mostruosa dei propri corpi) e carnefici (l’apparato militare di uno
stato tecnocratico che esegue i massacri e lo stesso Claud che
diviene l’aguzzino del fratello Kevin).
Non
passa inosservata, in questo scenario apocalittico, la puntuale
effrazione dei comandamenti del Decalogo per ciò che riguarda i
rapporti famigliari che intercorrono tra i personaggi principali.
Claud “disonora” sistematicamente il padre col quale vive un
rapporto conflittuale per l’incompatibilità delle rispettive
intime nature, lui razionale e freddamente calcolatore, il padre
Clive focoso e dissoluto. L’accusa contro il padre si trasforma in
una “requisitoria” nella scena esilarante di Claud-Bogarde che
volteggia nel proprio studio sfoggiando grande eloquenza di avvocato
mentre detta alla segretaria basita un testo che trasuda puro odio
filiale.
Così
Molly, la madre di Claud, incarnata nell’amante Ellen, viene
disonorata dal figlio medesimo che desidera il rapporto carnale e
quindi incestuoso.
L’adulterio
è all’ordine del giorno e mutualmente messo in pratica dalla
coppia Claud-Sonia.
Claud
non esita nemmeno un secondo ad uccidere il fratello minore Kevin in
una scena di fratricidio che attualizza la vicenda di Caino ed Abele.
Insomma,
ciò che si mette in scena è l’egoismo, il cinismo, la natura
luciferina ed istintiva dell’uomo in tutte le sue possibili
declinazioni.
Pure,
come in ogni capolavoro, le interpretazioni del film sono plurime e
la lettura biblica può essere arricchita, per esempio, da quella
freudiana sul cui pedale già altri hanno insistito mettendo in
evidenza come nel passaggio dal secondo al terzo atto, caratterizzato
da un’atmosfera sobria e morbida in cui i protagonisti “inscenano”,
questa volta, un idillio familiare, si scivoli dal complesso di Laio
in quello di Edipo con i figli che accusano il padre7.
D’altra parte, a confortarci nella convinzione di un’opera
traboccante di temi e spunti e quindi foriera di un effluvio di
reminiscenze, è Resnais stesso: «Quando ho cominciato a lavorare
con David Mercer a partire dal primo script (…) mi ha chiesto di
prendere, alla maniera di un ferrovecchio, tutto quello che mi
interessava. Ha messo il tutto in un cassetto, un po’ come faceva
Giraudoux con le sue prime versioni, e abbiamo ripreso l’insieme
conservando unicamente i personaggi»8.
Al
di là delle diverse declinazioni ermeneutiche che il film suggerisce
e dei temi che propone, come quello del rifiuto e dell’accettazione
della morte, dell’eutanasia, ciò che irrefutabilmente colpisce lo
spettatore è lo spregiudicato dispiegamento dei sentimenti nutriti
dai personaggi che rasenta la blasfemia. Il cadavere dell’uomo
anziano, soggetto all’autopsia del medico legale, diviene il
“correlativo oggettivo” della condizione di vita dei protagonisti
del film che, senza infingimenti, rinunciando al pudore o a
qualsivoglia bon ton
borghese, dichiarano apertamente l’odio, gli appetiti sessuali, il
disprezzo, l’insofferenza per il prossimo in un’escalation
di matrice surrealista. Tanto che in questo film Resnais si è
lasciato travolgere dal fascino di un lessico volgare, sconcio,
spudorato, frutto del puro istinto. La regressione animale degli
uomini-lupo è speculare alla disumanità dei protagonisti.
Ciò
che è notevole osservare è che questa “pornografia” dei
sentimenti, in diversi frangenti, sembra derivare da una contingenza
estetica che nasce in primis dal conflitto tra la voce narrante di
Clive Langham e la parte “residuale” che giocano i protagonisti
nella scena. In altre parole il conflitto tra testo letterario e
testo filmico si risolve mutualmente in un “prosciugamento” o,
all’inverso, nella “superfetazione” di uno dei termini: se la
voce fuoricampo commenta alcune scene anticipandone gli sviluppi, è
giocoforza che queste siano chiamate non di certo a reiterare quanto
espresso dal commento di Clive, ma a produrre una “variazione”,
creare un ritmo che a volte si traduce in un’esasperata
enfatizzazione (fino alle derive surrealiste) di ciò che è
suggerito dalla voce narrante, altre volte nella sua negazione.
Questo
manifesto e compiaciuto gioco tra forma e contenuto, che assume toni
sarcastici e irridenti, smorza la drammaticità e il carattere
apocalittico degli accadimenti, facendo emergere la marca d’autore
che contraddistingue il cinema di Resnais e che si risolve in una
leggerezza e umorismo disarmanti.
di Rebecca Amanda Snyder
1
Intervista di R. Benayoun in «Positif», n. 190 febbraio 1977, pp.
6-13, in Maurizio Regosa (a cura di ) Alain Resnais. Il metodo,
la creazione, lo stile, Biblioteca di B&N, Documenti e
Strumenti n. 5, 2002, p. 253
2
S. ARECCO, Alain Resnais o la persistenza della memoria, Le
mani, Genova 1997, p. 123
3
Intervista di J. Delmas-F. Gastellier in «Jeune Cinéma», n. 101
marzo 1977, pp.3-7, in M. REGOSA (a cura di ) Alain Resnais. Il
metodo, la creazione, lo stile, cit., p. 261
4
Intervista di A. Remond in «Télérama», 9 febbraio 1977, pp.
80-82 in M. REGOSA (a cura di ) Alain Resnais. Il metodo, la
creazione, lo stile, cit., p. 248
5
S. ARECCO, Alain Resnais o la persistenza della memoria,
cit., p. 123
6
Intervista di Claude Beylie in «Écran», n. 55 del 15 febbraio
1977, pp. 24-27 in M. REGOSA (a cura di ) Alain Resnais. Il
metodo, la creazione, lo stile, cit., p. 253
7
Tullio Kezich, «Il Corriere della Sera», 1977
8
Intervista di R. Benayoun in «Positif», n. 190 febbraio 1977, pp.
6-13, in M. REGOSA (a cura di ) Alain Resnais. Il metodo, la
creazione, lo stile, cit. p. 254
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