Forte è la tentazione di leggere l’opera di Bernardo Bertolucci come un puntuale e, quasi didascalico, inveramento delle dinamiche inconsce della psiche, la cui classica elaborazione teorica ci è stata offerta da uno dei più grandi pensatori del Novecento, Sigmund Freud, l’inventore della psicanalisi.
Tale
tentazione ermeneutica può ambire allo sdoganamento, se non
addirittura ad una naturale legittimazione, quando è lo stesso
regista che con grande non-chalance e disinvoltura dichiara
pubblicamente che “personalmente, faccio film per motivi
terapeutici”1,
affermazione che, a primo acchito, parrebbe scaturire da una certa
snobberia borghese velata di ironia, degna del miglior Woody Allen, ma
che, ad un’attenta lettura dell’opera, si palesa come verità
nuda e cruda nella sua disarmante effettività.
Per
non parlare poi dell’ossessivo impiego di una terminologia da
psicanalizzato immancabile nel lessico bertolucciano,‘masticata’
tanto bene da ridurre il complesso
di Edipo ad una sorta
di prêt-à-porter:
“Il
film (Prima della rivoluzione)
risulta allagato da istanze inconsce e sono stati necessari più di
dieci anni di analisi perché Prima della
rivoluzione diventasse La
luna e la zia diventasse la madre”2;
“Tara
è anche una parola molto infantile: “Tara” è come la parola
detta da un bambino che comincia a parlare; forse è il modo per dire
“cara” alla madre. Non a caso questa città è nata dopo due o
tre mesi che avevo iniziato l’analisi, cioè nel momento di
grandissimo entusiasmo per la scoperta freudiana”3;
“In
questo senso è un film (La strategia del
ragno) che ha l’iter di una terapia di tipo
psicanalitico, e Tara è come l’inconscio”4;
“Il
conformista è la storia di me e Godard (…) Io sono Marcello e
faccio film fascisti e voglio uccidere Godard che è un
rivoluzionario, che fa film rivoluzionari e che fu il mio maestro”5;
“In
Ultimo tango a Parigi,
con Jean-Pierre Léaud, “uccido” il cinéphile che sono stato”6;
“Tanto
per cambiare è un film (La tragedia di un
uomo ridicolo) sul voyeurismo”7.
Ora,
ciò che rende l’approccio all’opera di Bertolucci
irresistibilmente seducente è l’effetto cortocircuitante prodotto
da una contraddizione derivante dall’indicazione, da parte del
regista, della psicoanalisi come strumento ermeneutico privilegiato
della propria opera filmica, e dalla descrizione dei fenomeni
inconsci come oggetti ‘dispiegati’ consapevolmente nel testo
filmico. In altre parole la visione dei film, nel contesto delle
dichiarazioni dell’autore, fa nascere nello spettatore accorto il
presentimento, se non la convinzione, che il regista sia colto da
megalomania nel momento in cui investe se stesso di un duplice ruolo,
quello dello psicanalista e quello del paziente, espungendo
definitivamente l’Altro come termine imprescindibile di confronto…
Tanto che un ulteriore, aberrante quanto spregiudicato delitto
nevrotico, sembra si debba inevitabilmente aggiungere alla lista,
ovvero l’ ‘uccisione’ del sommo padre Sigmund Freud,
coronamento di una serie di ‘delitti’ per cui Bertolucci si era
già ‘costituito’: il padre naturale Attilio, i padri del cinema
Pasolini, Godard e Bresson…
Lo
spodestamento del padre Freud ha avuto come inevitabile conseguenza
lo sguinzagliamento del novello Prometeo errante per l’empireo
dell’inconscio, attraverso quegli spazi mitici, senza confini ed
orizzonte che il nostro regista ha riconosciuto nel deserto
marocchino de Il the
nel deserto,
nell’Asia de L’Ultimo
Imperatore e,
naturalmente, nella Bassa Padana di Novecento:
“In
Novecento avevo
bisogno di un microcosmo che in qualche modo però fosse anche
assoluto e quindi diventasse un macrocosmo. La Bassa, se ci stai
dentro, non ha confini, non vedi monti, tranne in rarissime giornate
estremamente limpide dopo piogge eccezionali, ma in generale la Bassa
non ha confini, quindi è un mondo come in espansione, la Bassa è
come un fotogramma di pellicola, il fotogramma di un film che non si
chiude sopra, in basso, a destra o a sinistra, è un quadro senza
cornice, una tela senza la cornice voglio dire (…) non esistono
punti di riferimento, se non filari di pioppi (…) se non cime di
campanili, voglio dire che la Bassa è quello che volevo io, un
microcosmo che desse la sensazione di un universo”8.
Di
quegli spazi e delle sue strutture il nostro Prometeo della
celluloide si è dichiarato re e demiurgo ma, la sfida è lanciata,
il suo destino è segnato e il ragno, per citare Bertolucci, si
ritroverà imprigionato nella stessa ragnatela che ha tessuto.
25
aprile 1945: un atto mancato
Campo
della suddetta tenzone sarà il film Novecento,
partorito in un momento particolarmente favorevole a Bertolucci,
reduce dal successo planetario di Ultimo
Tango a Parigi e con
a disposizione una valanga di soldi americani per finanziare (a suo
dire) un film “rosso”, insomma l’occasione perfetta per
scatenare l’ego dell’ enfant
maudit. A questo
proposito è lo stesso Bertolucci che descrive il proprio stato
d’animo in quel momento:
“Ci
sono film destinati a materializzare le fantasie infantili di
onnipotenza del regista, che hanno tempi di ripresa tanto lunghi da
essere paradossali, e di conseguenza problemi di montaggio quasi
insolubili a causa della mole di materiale girato”9.
“Dopo
Ultimo tango, potevo
fare tutto quello che volevo e mi sono quindi detto: “Farò una
sorta di film-ponte tra il cinema hollywoodiano e sovietico, tra la
finzione hollywoodiana e il realismo socialista”. Tutto questo mi
eccitava enormemente e il film è il risultato di un momento in cui,
non mi vergogno a dirlo, ero un po’ megalomane. Volevo fare il film
più lungo…”10.
Ebbene,
in questa sede ci piacerebbe dimostrare, con un certo gusto per la
provocazione che vogliamo mutuare proprio da Bertolucci, che “le
fantasie di onnipotenza” dell’autore nel film sono asservite (in
forma inconscia?) esattamente ad un esito a loro contrario,
distruttivo; la “megalomania” è foriera di un atto mancato,
nell’accezione psicanalitica della vicenda edipica e quindi della
reale impossibilità di uccidere il padre, che si condensa nel giorno
della Liberazione, il 25 aprile 1945.
Novecento
è un film che presenta una fantasmagoria di figure paterne nelle
diverse declinazioni del padrone, del patriarca, di una non meglio
precisata auctoritas…
Non a caso la scelta dei volti dei patriarchi era caduta su due
carismatiche icone del cinema hollywoodiano come Burt Lancaster e
Sterling Hayden che contribuivano, con la loro notorietà, a
proiettare il film in una dimensione mitica.
Con
ciascuna di queste figure paterne il regista intrattiene un rapporto
conflittuale, violento seppure in forme non sempre facilmente
codificabili.
È
lo stesso regista che ci mette all’erta sui sentimenti “spuri”
che nutre nei confronti della famiglia dei Berlinghieri, i possidenti
terrieri:
“Nel
parlare della famiglia dei padroni pensavo ad una sorta di condanna
morale che avrebbe potuto scaturire nel racconto da una sottile
strategia introspettiva, quasi un filtro proustiano. È balzato
incoercibile, in primo piano, invece, qualcosa di spurio, pieno di
violenza, di spietatezza verso questa famiglia di possidenti. Pensavo
che avrei potuto guardare alla realtà sociale dei Berlinghieri
attraverso una fascinazione della memoria, senonché ho dovuto fare i
conti con l’altro polo dialettico della vicenda, il radicale
contrasto di classe con la famiglia proletaria dei Dalcò”11.
Nel
corso della scrittura della sceneggiatura, l’idea di una
solipsistica autocondanna morale dei padroni perde piede in quanto la
classe dei padroni diviene uno dei poli dinamici di un conflitto che
vede come antagonista la famiglia dei Dalcò, i proletari. E’ a
questo punto che il piano della storia si intreccia,
inscindibilmente, con le istanze personali del regista: il contrasto
padrone-proletario attualizza il conflitto padre-figlio secondo le
dinamiche proprie del complesso di Edipo. Solo così si può spiegare
l’emersione “incoercibile” (perché inconscia), in fase di
elaborazione della sceneggiatura, della violenza e spietatezza verso
i Berlinghieri.
Tuttavia
gli atteggiamenti ostili o traumatici nei confronti della figura
padre-padrone sono destinati, come vedremo, a riaffermare
puntualmente la sostanziale inviolabilità della medesima: il
disperato tentativo di scalzarla o annientarla è sempre votato
all’insuccesso in quanto, secondo le dinamiche pulsionali che
governano il complesso edipico, il desiderio di morte che nutre il
bambino nei confronti del padre è sempre frustrato.
E
la riprova di quanto detto viene proprio dallo stesso regista che
affibbia al fascista Attila il nome del padre naturale Attilio… In
verità, come ci premureremo di dimostrare più avanti, Attila è una
delle poche figure maschili che non assurge a ruolo di padre. Perciò
la condanna e l’esecuzione capitale del fascista Attila non
coincide con l’uccisione dell’‘istanza padre’ ma Bertolucci
opera, inconsciamente, un’ingannevole traslazione di valore da una
figura all’altra.
Sebbene,
come si vedrà, l’irrefrenabile desiderio di morte del
padre-padrone si appunta in
primis sulla famiglia
dei Berlinghieri, è però anche vero che assistiamo in Novecento
ad almeno
un’occasione in cui l’attualizzazione del complesso di Edipo si
rende evidente presso la famiglia dei Dalcò, con esiti però di
natura opposta: è l’unica volta in cui il rapporto tra proletario
e padrone si ribalta a vantaggio del primo in quanto si costituisce
il rapporto padrone-figlio versus proletariato-padre. Si tratta della
sequenza in cui Leo Dalcò chiama a sé il nipote in una sorta di
cerimonia di investitura dei valori del socialismo.
La
scena è girata in una calda luce aranciata attorno alla tavola,
luogo, per antonomasia, della comunione del cibo e dei valori di
fratellanza. La scena, come testimonia Vittorio Storaro, direttore
della fotografia di Novecento,
intrattiene un rapporto d’elezione con un dipinto del pittore naïf
Gino Covili intitolato Discussione
per la formazione della Cooperativa12 ove i paesani emiliani sono raccolti intorno alla tavola con
le mani grandi e i corpi robusti di contadini.
Nel
film Olmo viene fatto salire sulla tavola e, tra cibi e vivande, si
avvicina al nonno sovrastando tutti quanti nella sua missione di
depositario dei valori del proletariato e quindi di degno sostituto
del patriarca Dalcò. Tuttavia Olmo, in questo frangente, è
portatore di un valore opposto, quello della proprietà privata in
quanto vuole trattenere per sé la moneta guadagnata per la pesca
delle rane: “Il soldo è mio!”. Ma la sua posizione spaziale
‘prevaricante’ nei confronti del padre-nonno è subito negata
dall’imposizione di quest’ultimo di cedere all’intera comunità
la moneta. Così, per la prima e unica volta nel film, si compie la
rivoluzione comunista nell’alveo dell’educazione familiare: la
vittoria dei valori della “comunanza” sui valori della proprietà
privata.
Il
25 aprile, dice Bertolucci, “è un giorno che include l’intero
secolo. Lo abbiamo preso come una sorta di giorno simbolico sul quale
è sguinzagliata, sul quale fiorisce questa utopia contadina; e
questo giorno include tutti i fatti condizionanti, tutti i fatti
necessari”13.
Il
25 aprile è il giorno della resa dei conti del conflitto che ha
visto opporsi, nel film, per mezzo secolo padroni e schiavi, la
borghesia agraria e il proletariato. Ma in fin dei conti ciò che si
vede sullo schermo è lo scacco del proletariato, dei contadini, dei
poveri e degli asserviti, degli stessi partigiani che consegnano le
armi alle milizie mentre il padrone restaura il proprio dominio dopo
aver subito un improbabile processo popolare, che ha il sapore più
di una farsa che di una rivalsa.
E
la proposta di Bertolucci di far passare tale disfatta per “utopia
contadina” non è convincente poiché un aquilone rosso
sventagliato da una parte all’altra di un’aia (con le parole di
Bertolucci: “la più grande bandiera rossa mai vista al cinema,
ricavata dall’unione di tutte le bandiere rosse che i contadini
avevano nascosto durante il fascismo”14),
seppur non scevro di un certo lirismo, non ha lo spessore e la
complessità progettuale di un’utopia. Stesso stucchevole impatto
hanno le sequenze preliminari allo sfoderamento dell’immensa
bandiera rossa, con l’abbraccio dei proletari della montagna e
della pianura, uniti per far trionfare il comunismo: “Hei compagni,
è vero che date la terra a chi la lavora?”. Molta parte della
critica in effetti si impennò contro lo schematismo ideologico che
ravvisava nella sequenza del 25 aprile, condannando la ripresa di
un’iconografia, di un’arte di propaganda che si rifaceva alle
“peggiori convenzioni del cinema realista-socialista di propaganda
così com’era concepito e praticato in URSS nell’epoca
staliniana”15.
Un altro esempio di enfatica espressione ideologica è rappresentato
dai bozzetti di Ezio Frigerio per il ‘monumento’ al comunismo riproducente la falce e il martello e quindi di
nuovo un’iconografia facile, ridondante che non trattiene pressoché
nulla delle sperimentazioni fresche e innovative degli ideali
avanguardistici del giovane Tatlin, per esempio.
Gli
esempi si potrebbero moltiplicare. Concluderemo la rassegna con
l’ennesimo ‘manifesto’ comunista di cui si fa mentore Olmo il
quale, per la prima volta nel film, guarda in macchina andando a
cercare gli occhi dello spettatore ‘simulando’ ingenuamente un
appello propagandistico… Il carattere retorico del discorso si
esaspera ancora di più se pensiamo che la scena rimanda al dipinto
di Giuseppe Pelizza da Volpedo, Il
Quarto Stato, che fa
da sfondo ai titoli di testa del film: ad Olmo spetta il primo e
primissimo piano mentre il resto delle comparse costituiscono lo
sfondo, la folla, la fiumana dei paesani che invocano giustizia senza
farsene davvero i promotori.
Allora,
quale è in sostanza l’utopia di Bertolucci? È inesistente. Il
processo popolare è finalizzato alla condanna del padrone e non ad
un’edificante impalcatura utopica volta alla costituzione di una
società diversa…
A
meno che si voglia identificare tale utopia con le parole che il
vecchio Leo morente rivolge al nipotino Olmo in Atto I: “Sarà
questo il socialismo? I ricchi tutti lì a sudare e noi poveri qui
sotto un albero a pancia all’aria? È troppo bello per durare”.
Ma anche questa è una farsa, un sovvertimento carnascialesco dei
rapporti di forza tra padrone e servitore che però è destinato a
ristabilire lo statu quo e che richiama, come ha acutamente osservato
T.J. Kline, il teatro
di stalla, “un
genere spontaneo di dramma contadino” in cui “i contadini
recitano una commedia in cui l’ordine tradizionale dei ruoli è
invertito: l’esempio più ricorrente è il padrone che diventa
servitore”16.
L’impressione
è che il desiderio, la pulsione irrefrenabile di rivalsa si consumi
tutta in questa galleria di manifesti estetizzanti ma, di fatto, poco
efficaci e nel trionfo della musica popolare. Novecento
è, infatti, un grande affresco popolare che si richiama al teatro
musicale ottocentesco.
La
musica è la grande onda che raccoglie le speranze e le delusioni dei
contadini e dei proletari e che ne mitizza il cammino storico. Si
pensi appunto alla sequenza del 25 aprile in cui il processo al
padrone si risolve in una festa popolare o all’esecuzione di Attila
rispetto alla quale Tullio Kezich osservava che essa “avviene a
suon di musica come in una scampagnata ritualistica: non sembra che i
contadini vadano ad uccidere un uomo ma a “segare la vecchia”17
”. O ancora si ricordi la vicenda del Montanaro che, alla richiesta
di altro cibo da parte dei propri figli, risponde: “te la faccio
passare io la fame” e incomincia a suonare un piccolo flauto. La
musica consola, la musica imprime uno scatto di inebriamento euforico
che esorcizza, riscatta una realtà altrimenti amara. Come affermava
Robert Bresson nelle sue Notes,
seppure con intenti diversi, “la musica è un potente modificatore
e persino distruttore del reale, come l’alcol e la droga”18.
Durante
un confronto con Pajetta, il quale riteneva la sequenza finale del 25
aprile “brutta perché storicamente falsa”19,
Bertolucci dichiarò che “nel film il 25 aprile era un tuffo nel
futuro e non una ricostruzione storica del passato; non la messa in
scena di ciò che era successo ma di ciò che avrebbe potuto
succedere”20.
A
nostro modo di vedere qui Bertolucci è vittima di uno
‘scivolamento’: l’espressione “tuffo nel futuro” non
s’addice all’utopia che egli pretestuosamente crede di aver
fondato, bensì ad un meccanismo tutto inconscio per cui il desiderio
di rivalsa dello schiavo-contadino, ovvero del figlio, sul
padrone-borghese, ovvero sul padre nella vicenda del complesso di
Edipo, è destinato a venir sempre frustrato nella realtà del
presente (il desiderio di uccidere il padre da parte del figlio
rimane frustrato poiché represso) ma pur tuttavia rigenerato
all’infinito (nell’immediato futuro prossimo) in quella che, in
termini psicanalitici, è definita compulsione a ripetere.
Tant’è
che tale desiderio di morte del padre-padrone, frustrato nella
sequenza del 25 aprile, si avvera (ma solo in parte) nella scena
finale, al secondo tentativo!
Il
film, come si ricorderà, termina con una scena dal sapore ancora una
volta comico-farsesco in cui i due protagonisti si azzuffano
(inscenando la lotta di classe) per poi morire come i loro antenati,
l’uno di vecchiaia adagiato su un palo, l’altro di morte
violenta, attraverso il suicidio.
Siamo
convinti che questa scena non risponda semplicemente ad una volontà
di coerenza formale ma ad una vera e propria necessità di
“Liberazione”, di compulsione a ripetere un atto dettato da un
desiderio sempre frustrato.
Il
suicidio è la formula perfetta che nel film “sublima” questo
desiderio frustrato di onnipotenza: il figlio-regista uccide
effettivamente il padre ma, poiché tale desiderio è represso dai
sensi di colpa, nasconde la mano e ‘inscena’ un suicidio…
Tale
dinamica, in realtà, l’avevamo già incontrata nella scena del
suicidio di Alfredo Berlinghieri senior.
L’autocondanna
morale del padrone che, nelle intenzioni del regista, “avrebbe
potuto scaturire nel racconto da una sottile strategia introspettiva”
in realtà non ha luogo.
Se
si dovessero ricercare le ragioni di tale atto nelle parole di
Berlinghieri, si arriverebbe alla conclusione che egli decide di
togliersi la vita perché ormai vecchio e impotente: “I giovani
ballano, si abbracciano e prima di sera fanno l’amore”, “Questa
non è terra per vecchi”, “La dannazione è dentro di noi. La
maledizione peggiore sai qual è? (…) E’ quando non ti tira”.
Tali
ragioni sono tradite da quanto sostiene Leo quando scopre il
cadavere: “Ah, se poteste vedervi, signor Alfredo, non siete mica
morto da padrone! Ma che bisogno c’era di slegare tutte le vacche!
Per farmi lavorare di più? Forse la verità è che quando un uomo
non fa niente per tutta la vita, ha troppo tempo per pensare e, a
forza di pensare, diventa rimbambito”.
Le
ragioni di Dalcò tradiscono quelle di Berlinghieri. Alfredo, in
realtà, è morto da padrone: si è tolto la vita perché ha
riconosciuto la propria impotenza e ha slegato le vacche perché con
quelle catene si è impiccato…
Dalcò
giunge addirittura ad insinuare una sorta di dramma esistenziale.
Forse un’autocondanna? In realtà egli si fa portavoce non tanto
della coscienza del padrone ma dei desideri di rivalsa del
proletariato, travisando la realtà.
Ciò
viene dichiarato esplicitamente nella scena successiva ove viene
redatto il falso testamento di Alfredo senior in una scena fortemente
suggestiva per la predominanza dei toni scuri e di una luce fioca,
teatrale, debitrice della migliore pittura romantica ottocentesca
italiana.
Ora,
i desideri di rivalsa del proletariato si esprimono proprio secondo
le modalità inconsce dello spostamento, della condensazione e della
sublimazione: le ragioni dell’atto suicida vengono inconsciamente
travisate, la morte del padrone è accolta, involontariamente, come
una festa (tanto che ci scappa il brindisi), l’impatto emozionale
dovuto all’evento viene condensato nel violentissimo sfondamento di
un cocomero, una scena da infarto che, non a caso, viene fatta
coincidere esattamente con la morte del padrone, annunciata da Irma:
“Il padrone è morto!”.
E
posto che il cocomero, in qualche modo, funga da sostituto del corpo
di Berlinghieri, non è privo di significato che l’autore dell’atto
sia proprio Leo che, una volta ‘sventratolo’, con la mano lo
penetra strappandone le ‘viscere’ e che addirittura continua a
mangiarne anche dopo essere entrato nella stalla e aver scorto il
corpo appeso del padrone… Egli continua imperterrito nel suo
lavoro, preoccupato che le vacche non fuggano dalla stalla in una
scena che raggiunge esiti vicini alla farsa che, nella sua funzione
di sovvertimento della realtà, in qualche modo ne esorcizza la
portata devastante.
La visione diplopica: il mito e la storia.
Ma
procediamo per gradi e, come vorrebbe ogni trattazione ordinata,
partiamo dall’inizio del film, se non fosse che anche in questo
caso non possiamo venir esauditi in quanto Bertolucci ha concepito
entrambi gli atti di cui si compone il film come un amplissimo
flash-back della durata di quasi mezzo secolo nella ‘realtà’
della storia narrata e di quasi quattro ore nell’opera filmica.
Questa
particolare distribuzione dei blocchi narrativi è singolare
nell’economia di un genere cinematografico quale è il mélo cui si
può con facilità far assurgere Novecento
per le vicende dense
di risvolti sentimentali, le scene commoventi e l’uso particolare
della musica, tesa ad amplificare la risonanza emotiva delle vicende
narrate. C’è da chiedersi il motivo per cui Bertolucci abbia
optato per il flash-back invece che far procedere la storia narrata
in maniera cronologicamente lineare e optare quindi per un climax
ascendente culminante nell’azione drammatica finale.
Ebbene
tale scelta ha una grande importanza all’interno del discorso che
portiamo avanti in queste pagine.
Infatti
le prime scene del film, quelle che anticipano il flash-back, sono il
manifesto del film stesso, ovvero la traduzione letterale (conscia o
inconscia?) del complesso di Edipo. E il flash-back lunghissimo che
segue è il tentativo di dipanare, di sciogliere i moventi, le
“condensazioni” implicate nelle suddette scene.
In
questo senso il film pare davvero rivestire una funzione terapeutica
e dunque è giocoforza che la forma adottata per la propria
espressione sia il melodramma che viene comunemente sfruttato anche
come forma di psicanalisi di gruppo, per teatralizzare le dinamiche
familiari così da tentare di superare, attraverso la finzione
scenica, problemi determinati da ciò che viene inconsciamente
rimosso.
Ma
veniamo ora all’analisi delle prime scene, di quello che potremmo
definire un antefatto, non nel senso tradizionale del termine,
infatti tali avvenimenti si collocano cronologicamente dopo i fatti
narrati nel flash-back, ma in senso genealogico: prima di tutto il
motore della storia è un conflitto di forze interiori irrisolto…
La
prima scena del film si apre, in campo lungo, su un gregge al pascolo
che dà il "la" ad una serie di inquadrature della campagna lavorata
dai contadini e dalle bestie che si ispirano alla pittura dell’ultimo
ventennio dell’Ottocento, ed in particolare al Segantini de La
raccolta delle patate
(1890), per esempio, dove la terra, lavorata dai movimenti
euritmici delle donne, si perde all’orizzonte avverando
quell’effetto di “cosmo in espansione” tanto ricercato dal
regista.
Il
campo è attraversato da un uomo che incede al ritmo di un canto
partigiano. Una volta inoltratosi nella boscaglia, viene sorpreso da
un fascista che gli spara una mitragliata di colpi ferendolo a morte.
A questo punto partigiani e contadini, per ‘legittima difesa’, si
armano di fucili per scovare e contrastare, a guerra ormai conclusa,
l’ultimo baluardo nemico. Questo avvenimento, tuttavia, costituisce
un pretesto per consumare una vendetta tutta personale, ovvero quella
di Leonida-Edipo che prega il partigiano Tigre di consegnargli un
fucile poiché anche lui, coi propri mezzi, ha partecipato alla
lotta.
Questo
è un momento cruciale del film poiché è da qui che si dipartono i
due livelli del discorso, il piano della storia per così dire
ufficiale e il piano delle istanze personali del regista.
A
riprova di quanto detto ci sono le parole di Bertolucci:
“Se
torno indietro e rileggo il diario di lavorazione di Novecento,
mi accorgo che a un certo punto ho contratto la diplopia…vale a
dire che vedevo doppio. Più mi sforzavo a concentrarmi, più vedevo
doppio. Precisamente eravamo al nono mese delle riprese”21.
Una
volta consegnato il fucile, Leonida si diparte nettamente dal gruppo
di partigiani, il che è sottolineato dalla sorpresa di Tigre che è
a capo del gruppetto: “Ma dove vai, Leonida?” e dalla traiettoria
disegnata dal cammino del ragazzo, diametralmente opposta a quella
degli altri uomini: mentre essi si dirigono verso il fuoco nemico,
Leonida-Edipo, dichiarando apertamente i propri intenti: “Voglio
uccidere anch’io!”, va incontro ad un destino mitico che lo
conduce verso la casa del padre-padrone.
La
sequenza che segue è una delle più belle del film per la perfetta
compenetrazione delle due istanze di cui dicevamo; perciò si tenterà
di farne una lettura doppia, sperimentando una visione diplopica…
Leonida,
prima di entrare nella casa padronale, si preoccupa di pulire le
scarpe infangate sullo zerbino. Questa azione si può leggere sia
come un automatismo, frutto dell’educazione del ragazzo, ma anche
come segno di reverenza nei confronti dei luoghi in cui regna la
presenza del padre-padrone.
Leonida
dunque si intrufola nella casa avvolta in un silenzio interrotto solo
dal rintocco di un orologio. Gli ambienti sono poco illuminati,
mutuando il sentimento di uno spazio privato, intimo, interiore come
quello in cui si consuma il desiderio di morte di Edipo.
Prosegue
il suo cammino diretto verso l’ascolto della radiocronaca della
liberazione delle città italiane dal dominio nazi-fascista: è lì
che si trova il padre-padrone.
Prima
di dirigersi lì, però, spilluzzica del formaggio posato su di un
vassoio, il che non si addice certo all’azione che di lì a poco
verrà compiuta. Questo dettaglio mette in evidenza lo stato di
incoscienza di un ragazzino-soldato, cresciuto troppo in fretta, che
si sta apprestando a compiere un’azione al di sopra delle sue
possibilità e, contemporaneamente, dello stesso Edipo che uccide il
padre senza esserne consapevole; di qui la traduzione psicanalitica
della vicenda per cui il desiderio della morte del padre è
inconscio, represso.
Una
volta giunto a destinazione Leonida si para davanti al padre-padrone
col suo “fucilone” e gli intima di abdicare ai propri valori
proclamando “Viva Stalin!”; in altri termini propone di
sostituirsi al padre attraverso i nuovi ideali di cui è portatore,
ovvero il comunismo ma, manco a dirlo, l’atto è mancato perché il
puntuale intervento della domestica fa sì che i colpi vengano
deviati dal vero obiettivo su di un dipinto appeso alla parete22.
Il
ruolo della domestica in questa sequenza è molto importante in
quanto, oltre ad avere una funzione strumentale nel dirottamento dei
colpi di fucile, essa crea un rapporto caldo, familiare nella vicenda
dei tre. Dal punto di vista della diegesi è chiaro che ella conosce
Leonida perché della stessa estrazione sociale; tuttavia la non
totale estraneità di Leonida rispetto al luogo in cui si trova,
mutuata proprio dall’affettuosità della donna, favorisce un
accostamento del ragazzo al padrone nel senso di una maggiore
familiarità e quindi di un nesso padre-figlio più stretto…
Come
dicevamo più sopra la figura del padre è inviolabile: egli non
batte ciglio quando sorprende il ragazzo che imbraccia il fucile,
anzi lo schernisce e si prende gioco di lui come si evince in misura
ancora maggiore nel confronto tra i due nella stalla ove l’impotenza
del ragazzo è riaffermata proprio in virtù della volontà del
padre-padrone di assecondare amabilmente la smania di potere di un
innocuo pischello. La sequenza termina con Leonida che imbraccia di
nuovo il fucile contro il padrone in atto di sparargli e pronuncia la
sentenza di morte: “Non ci sono più padroni!”. Non è un caso
che la scena seguente, che dà inizio al vertiginoso flash-back,
abbia inizio con l’annuncio di una morte (quella di Giuseppe
Verdi). Lo si potrebbe interpretare facilmente come un esempio di
inconscia traslazione del desiderio di morte dalla figura del padrone
Berlinghieri (che nella realtà dei fatti viene risparmiato) a quella
di Giuseppe Verdi: viene così soddisfatto il desiderio di morte per
interposta persona, anzi sostituendo il padre dell’Opera italiana
con il padre-padrone… Solo così si spiega l’annuncio della morte
del grande compositore italiano ad opera di Rigoletto, che non solo è
ubriaco ma addirittura rutta mentre pronuncia il nome di Verdi. Si
rasenta la blasfemia! O meglio, la scena assume nuovamente, come in
altre occasioni, i tratti della farsa che, come tutte le pratiche
carnascialesche, ha una funzione catartica di liberazione delle
pulsioni emozionali-libidiche.
Facciamo
un passo indietro. La scena precedente a questa si comporta come
controcanto rispetto alla prima poiché qui assistiamo ad una scena
di linciaggio ‘riuscita’, operata dalle contadine nei confronti
della coppia Attila-Regina.
Ci
troviamo dunque di fronte allo stesso meccanismo che abbiamo
incontrato nelle due scene finali del film, quella del 25 aprile e la
seguente con la zuffa e la morte dei due amici ormai vecchi…
Le
istanze pulsionali, frustrate nella scena che vede Leonida mancare il
bersaglio, si rinnovano con efferata violenza contro i due fascisti
ma, ineluttabilmente, il bersaglio (a discapito di quanto vuol far
intendere Bertolucci riguardo al ‘patronimico’ del fascista)
viene mancato, in quanto Attila non si può identificare con l’
‘istanza padre’, che costituisce uno dei fulcri del complesso
edipico. Ci apprestiamo a spiegarne il motivo.
Attila,
l’anti-Edipo.
Attila
incarna, nel film di Bertolucci, il fascismo. Attila è innanzitutto
una creatura famelica, un mostro di violenza, un carnefice. Sono
diverse le scene in cui questo aspetto emerge in maniera sintetica e,
perciò, straordinariamente intensa.
Basti
pensare alla scena agghiacciante in cui sventra, con una testata, un
gattino che a suo dire è affetto dal sentimentalismo comunista. Lo
vediamo prendere la rincorsa e scaricare tutta la sua energia di cane
rabbioso sulla creatura innocente mentre all’esterno, nella piazza
attigua al covo di fascisti, si celebrano i funerali dei quattro
anziani della Casa del Popolo con un ritmo lento, dimesso ove il
corteo degli uomini è ripreso con uno stile registico che rimanda al
genere documentaristico.
Per
ben due volte, nella soffitta assieme a Regina e prima di essere
giustiziato, egli si definisce un cane da guardia e una bestia tanto
che inizia a grugnire come un porco.
Il
truce omicidio di Fabrizio, la cui testa viene fracassata da Attila
attraverso un movimento rotatorio centrifugo, è l’ennesimo
episodio che segna l’escalation
di atrocità compiute dalla coppia di mostri. La scena indugia anche
sulla sessualità perversa dei due fascisti che stuprano il bambino e
lo costringono ad assistere al loro coito. Le tendenze sadomasochiste
dei due sono poi riaffermate più oltre nelle parole che Attila
rivolge a Regina: “Gli insulti, le umiliazioni mi danno forza”.
Il rapporto tra sessualità e politica, tra perversione sessuale e
nazi-fascismo pare una costante della letteratura e del cinema della
seconda metà degli anni Settanta e inizi Ottanta. Basti pensare al
Pasolini di Salò
o al Portiere di notte
di Liliana Cavani… Naturalmente è opportuno sottolinearne gli
esiti diversi: se in Salò
la perversione sessuale diventa la cifra dell’impotenza del potere,
nel film della Cavani finisce per costituire una riflessione sulla
natura profonda delle pulsioni umane e sul sadomasochismo che le
governa. In Novecento
la perversione sessuale mutua un significato ancora diverso: denucia
la sessualità immatura, infantile di Attila e Regina, la quale, fin
dai primi esperimenti sessuali con il cugino Alfredo, manifesta
l’incapacità di vivere la sessualità in maniera completa,
appagante: ella ne costruisce un surrogato fatto di travestimenti e
feticismo.
Una
terza scena, l’omicidio della signora Pioppi, ripete esattamente il
topos della furia fascista che abbiamo riscontrato nelle scene
precedenti: Attila prende la rincorsa e sfonda la porta del salotto.
Degna
di nota e, a nostro avviso, geniale soluzione registica è
l’identificazione della furia fascista con un movimento al quale si
imprime un’accelerazione e che, nella propria crescita
esponenziale, diviene incontrollabile. Attila è un distruttore in
virtù di una forza che supera la sua volontà. Si ricordi la scena
dell’omicidio di Fabrizio e, in particolare, lo stato di trance
in cui si trova Attila quando l’atroce giostra della morte, di cui
egli è il motore, si arresta…
L’accecamento
della ragione si riflette anche nell’inverno tetro ove si compie il
macabro rituale. Il paesaggio di rami secchi avvolti nella nebbia
riporta alla mente Abbazia
in un querceto (1809)
(Fig. 5) di Caspar David Friedrich ove il sentimento del sublime si
tinge di toni cupi, di un’aurea spettrale, presagio degli orrori
futuri.
Il
male, di cui Attila si fa promotore, assume una propria autonomia:
trionfano il male per il male, la violenza per la violenza senza che
vi si possa porre rimedio. Il fascismo è evocato come fenomeno
dilagante, come un’epidemia. La violenza fascista assume i
connotati di una catastrofe nell’accezione che ne dà Baudrillard:
La
crisi è sempre questione di causalità, di squilibrio di cause ed
effetti, e trova o meno la sua soluzione in un riaggiustamento delle
cause. Per quanto riguarda la catastrofe, invece, sono le cause che
si cancellano e diventano illeggibili lasciando il posto a
un’intensificazione dei processi nel vuoto. Quello che non ha più
della crisi, bensì della catastrofe, è quando il sistema si
oltrepassa da sé, quando ha superato i propri fini e dunque non è
possibile trovargli alcun rimedio23.
Attila
sembra uscito dal manifesto futurista di Marinetti: egli glorifica la
guerra, inneggia al progresso tecnico, esalta “il movimento
aggressivo, l’insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto
mortale, lo schiaffo e il pugno”.
L’orrore
della follia fascista si materializza nella scena della rappresaglia
condotta da Attila contro i contadini che gli hanno lanciato “merda”.
Egli
spara indifferentemente sugli uni o gli altri o, meglio, è
sufficiente asserire che il fascismo non esiste o fischiettare
l’Internazionale per morire: il confronto, la dialettica, i termini
esplicativi del discorso vengono aboliti in favore di una violenza
gratuita, indiscriminata: è la dittatura, la “rivoluzione
fascista”!
Ma
allora “chi sei tu?”, chiede Regina ad Attila. Attila è un
anti-Edipo (nell’accezione psicanalitica), ne è l’antagonista.
Come Edipo ha i suoi sogni di onnipotenza; come Edipo, desidera
ardentemente sostituirsi al padre-padrone; come Edipo, tale tentativo
di prevaricazione è votato all’insuccesso.
Per
quanto riguarda il primo termine ci si riferisce alla condizione di
onnipotenza del bambino che ancora non ha formato una propria
identità, la quale si acquisisce solo nel riconoscimento consapevole
dell’Altro.
Attila,
infatti, è un Narciso che alla bellezza ha sostituito la forza
machista.
Prestiamo
attenzione alle sue stesse parole mentre fissa la propria figura
nello specchio della sartoria ove si sta confezionando la camicia
nera: “Mai avere rimpianti, mai paura. Se c’è d’aver paura di
una cosa, è solo di se stessi”; quindi: “Non voglio essere
elegante io, voglio essere forte!”.
Di
lì a poco assisteremo alla performance che lo vedrà impavidamente
lanciarsi nella sua stessa immagine allo specchio, proprio come un
novello Narciso!
Come
si diceva più sopra Attila aspira, come Edipo, a sostituirsi al
padre-padrone attraverso una strategia dell’attesa e della
sottomissione: pian piano egli si insinua nelle maglie del potere
(“Non devi mai mordere la mano che ti nutre finché hai bisogno di
nutrimento”). Attila proclama la volontà di sostituzione al
padre-padrone in nome della rivoluzione fascista: “Tu, Alfredo
Berlinghieri, e tutti gli altri parassiti pagherete il vostro conto
per la rivoluzione fascista e ce lo pagherete molto salato, tutti
dovranno pagare”. In realtà i propositi sono traditi in quanto
egli aspira ad annientare il padre-padrone non nel nome di una
rivoluzione ma dell’emulazione, come Edipo che desidera sostituirsi
al padre per godere dei suoi privilegi restaurando, in definitiva, lo
statu quo. Ciò si evince dalle fantasticherie cui si abbandonano
Attila e Regina nella soffitta ove sono reclusi: “Ho diritto ad una
casa tutta per me, una casa da vera signora!”, “Te l’immagini:
noi due lì, in salotto, in due belle vestaglie di seta, ad ascoltare
una trasmissione radiofonica; un servo in livrea entra e ci porta due
bicchierini di marsala all’uovo” e quindi: “Marsala i miei
coglioni! Io voglio champagne!”
Tale
immagine si materializzerà poco tempo dopo nella cucina di villa
Pioppi, di cui i due si sono impadroniti in maniera illecita.
Assistiamo
ad una vera e propria doppiatura del padre-padrone da parte di Attila
nella sequenza in cui questi inneggia al miracolo fascista dei
cavalli a vapore che soppiantano i cavalli da tiro: torna
prepotentemente alla mente l’immagine dell’entusiastico Giovanni
Berlinghieri a bordo dell’aratro meccanico.
Ma,
come si è anticipato, il tentativo di prevaricazione del fascista
Attila, ovvero l’anti-Edipo, è destinato a fallire: egli viene
giustiziato dai contadini comunisti, che si pongono, nei suoi
confronti, come antagonisti. È così che assistiamo magicamente, con
la fine di Attila, al compimento di due destini all’interno di due
prospettive differenti, quella del mito e quella della storia: la
dannazione di (anti)-Edipo e la condanna del fascismo.
È
singolare la scelta di Bertolucci di ‘affidare’ la cattura e il
linciaggio dei fascisti in
primis alle donne
che, con i loro forconi, disarmano Attila conducendolo, ormai
innocuo, dagli altri popolani.
D’altra
parte sono proprio le donne che detengono una sorta di ‘primato’
in questa lotta al fascismo. Si pensi alla sequenza in cui Attila,
neo fattore, viene irriverentemente schernito da Anita, la maestra
profuga, che invita le altre donne a gettargli addosso manciate di
grano affinché il “gallo del cortile” ne possa beccare.
Questa
azione trova eco nel lancio della “merda” contro lo stesso Attila
di cui si fa promotrice la figlia di Anita che, non a caso, porta il
nome della madre. Ed è sempre lei che infliggerà il colpo di grazia
ad Attila dopo l’inseguimento delle donne.
E
così il cerchio si chiude: le donne si identificano nella figura di
Anita che, a sua volta, è il simbolo del comunismo militante e,
quindi, della lotta contro il fascismo.
In
virtù di quanto detto sopra possiamo concludere che Attila non si
può identificare nell’istanza-padre, bensì è uno specchio al
negativo di Edipo e perciò, non godendo dell’ ‘immunità’
paterna, si può ‘legittimamente’ giustiziare.
Si
potrà osservare, a questo punto, che fino ad ora non è ancora stata
contemplata la figura della donna-madre, che rappresenta il terzo ed
imprescindibile polo della configurazione Edipo-figlio, Laio-padre,
Giocasta-madre.
Come
si sa la madre, nella dinamica edipica, è oggetto del desiderio
inconscio del bambino e diventa la ragione per la quale egli vuole
sostituirsi al padre.
Ebbene,
in Novecento,
le due protagoniste femminili, Ada e Anita, in due tempi diversi,
vengono espunte dal film: l’una muore di parto e l’altra fugge
dalla casa padronale.
Allora,
a ragione di quanto è stato esposto fino ad ora, ci piacerebbe
domandare a Bertolucci se la scomparsa delle due donne protagoniste
non sia l’ennesima prova della ‘traduzione’ (inconscia?) del
complesso di Edipo nel film: il bambino desidera uccidere il padre ma
tale desiderio, rimanendo frustrato perché represso, gli impedisce
di sostituirsi alla figura paterna, precludendogli perciò anche la
conquista della donna-madre…
Conclusioni
Tale
approccio ermeneutico all’opera di Bertolucci non vuole certo porsi
come esaustivo ma è innegabile che sia ‘fruttifero’ e
soprattutto consente di non annegare in quella querelle
infinita esplosa all’uscita del film e preoccupata esclusivamente
di difendere o condannare il film di Bertolucci in base alla
verosimiglianza o meno dei fatti storici narrati e impegnata, nel
bene e nel male, a farne un film politico tout-court. Da diverse
parti si levarono varie voci che invitarono alla moderazione e a
valutare l’opera anche sul piano più strettamente personale.
Ricordo,
per esempio, la recensione ‘a caldo’ di Cesare Musatti:
“La
prima domanda che mi è venuto di pormi quando ho visto il film è
stata: come ha fatto un uomo giovane come Bertolucci, che appartiene
alla seconda metà del secolo, a ricostruire la storia di un periodo
anteriore alla sua nascita? Certo, ha avuto i documenti, ma questo
non basta. In realtà il problema è mal posto, perché Novecento
non è un film storico, è un film sul modo in cui Bertolucci vive il
nostro passato prossimo. Bertolucci, cioè, non ha voluto fare una
rievocazione storica, ma ha rivissuto per conto proprio un’epoca.
Dunque non è utile andare a vedere nei particolari se le cose sono
più o meno esatte”24.
In
questo senso ci invita a riflettere lo stesso regista con la seguente
dichiarazione:
“Ogni
cosa che accade in questo film a livello personale è relegata ad
avere un significato più ampio, storico. È la storia di un popolo,
dei contadini di quest’area geografica, un popolo che sviluppa la
propria creatività per costruirsi una storia. Una storia nel senso
marxista”25.
Con
grande acutezza T.J.Kline osserva che tale dichiarazione di intenti
risulta un po’ confusa dal momento che sembra sia l’aspetto
personale ad essere destinato ad avere un impatto più ampio, storico
e non il contrario: “Questa inversione involontaria dei termini
rivela che le istanze personali del film si sono infatti interposte
tra lo spettatore e la storia che avrebbe dovuto essere mostrata”26.
1
Jean-Claude Mirabella – Pierre Pitiot, intervista in occasione del
“Convegno pubblico-XII Festival du cinéma méditerranéen,
Montpellier, 4 novembre 1990”, riportato in Intervista a
Bernardo Bertolucci , Gremese Editore, Roma 1999, p. 52.
2
Stefano Socci, Bernardo Bertolucci, Editrice Il Castoro,
Milano 2003, p. 7.
3
Citato in Stefano Socci, Bernardo Bertolucci, Editrice Il
Castoro, Milano 2003, p. 7-8.
4
ibidem, p. 8.
5
ibid., p. 8
6
ib., p. 9
7
ib., p. 11
8
Citato in Guido Conti,“Novecento letterario: riflessioni a
margine del film” in Il Novecento di Bernardo Bertolucci nelle
immagini di Angelo Novi, Monte Università Parma Editore, Parma
2005, p. 21.
9
Enzo Ungari, Scene madri di Bernardo Bertolucci, Ubulibri,
Milano 1982, p. 131.
10
Jean-Claude Mirabella – Pierre Pitiot, intervista in occasione del
“Convegno pubblico-XII Festival du cinéma méditerranéen,
Montpellier, 4 novembre 1990”, riportato in Intervista a
Bernardo Bertolucci , Gremese Editore, Roma 1999, p. 46.
11
Citato in Sauro Borelli, “Novecento” in In viaggio con
Bernardo. Il cinema di Bernardo Bertolucci, a cura di Roberto
Campari e Maurizio Schiaretti, Marsilio Editore, Venezia 1994, p.
90.
12
Storaro-Covili, Il segno di un destino/The sign of a destiny
/ scritti e fotografie/words and photographs: Vittorio Storaro ;
dipinti/paintings: Gino Covili ; poesie/poems: Vico Faggi. Electa,
Milano 2005. (Mostra tenuta a Roma nel 2005), p. 37.
13
Citato in T. Jefferson Kline, I film di Bernardo Bertolucci,
Gremese Editore, Roma 1994, p. 109.
14
Jean-Claude Mirabella – Pierre Pitiot, intervista in occasione del
“Convegno pubblico-XII Festival du cinéma méditerranéen,
Montpellier, 4 novembre 1990”, riportato in Intervista a
Bernardo Bertolucci , Gremese Editore, Roma 1999, p. 46.
15
Max Tessier, Écran, n° 54, dicembre 1976, recensione
riportata in Jean-Claude Mirabella – Pierre Pitiot, Intervista
a Bernardo Bertolucci , Gremese Editore, Roma 1999, p. 101.
16
T. Jefferson Kline, I film di Bernardo Bertolucci, Gremese
Editore, Roma 1994, pp. 107-118.
17
Tullio Kezich, in “la Repubblica”, 30 agosto 1976, recensione
riportata in Il Novecento di Bernardo Bertolucci nelle immagini
di Angelo Novi, Monte Università Parma Editore, Parma 2005, p.
132.
18
Robert Bresson, Note sul cinematografo, Marsilio Editore,
Venezia 1986, p. 81.
19
Enzo Ungari, Scene madri di Bernardo Bertolucci, Ubulibri,
Milano 1982, p. 131
20
Enzo Ungari, Scene madri di Bernardo Bertolucci, Ubulibri,
Milano 1982, p. 131.
21
Citato in T. Jefferson Kline, I film di Bernardo Bertolucci,
Gremese Editore, Roma 1994, pp. 107.
22
T. J. Kline asserisce in I film di Bernardo Bertolucci,
Gremese Editore, Roma 1994, a p. 112 che Leonida “spara
accidentalmente a un ritratto del patriarca Alfredo Berlinghieri”.
In realtà non ci pare che si abbia modo di scorgere tale ritratto.
Comunque, se così fosse, il ritratto si comporterebbe come un
feticcio della figura del padre-padrone attivando un meccanismo di
traslazione delle pulsioni istintuali e quindi di spostamento del
significato.
23
J. Baudrillard, La trasparenza del Male,
SugarCo, Milano 1990, p. 39.
24
Cesare Musatti, in “la Repubblica”, 30 agosto 1976, riportato in
Il Novecento di Bernardo Bertolucci nelle immagini di Angelo
Novi, Monte Università Parma Editore, Parma 2005, p. 132-133.
25
Citato in T. Jefferson Kline, I film di Bernardo Bertolucci,
Gremese Editore, Roma 1994, pp. 107.
26
Ibidem, p. 107
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